DRM e software: un altro punto di vista

In un pezzo di qualche giorno fa, Cesare poneva alcuni spunti interessanti sulla questione dei beni immateriali. Vorrei proporre un altro punto di vista, non prima di aver posto qualche premessa introduttiva all’argomento.

Il problema DRM-non DRM ha origini connaturate nello strumento: un’autovettura o qualunque bene materiale, non si può duplicare per uso privato. Un’autovettura rappresenta un bene in sé concluso, la giustificazione di quel che viene pagato corrisponde con l’oggetto fisico che un bel giorno finisce parcheggiato sotto casa.

Software ed audiovisivi al contrario, hanno usi e funzioni che esulano dalla confezione. Una confezione, compreso il supporto, che si può ritenere vettore di quelle funzionalità, ma che non le esaurisce – particolarmente in tempi di digitale.

Inquadrata questa discriminante, la domanda che si pone è: quando compro software (ma anche audiovisivi), cosa sto acquistando? Acquisto il supporto o il diritto di fruirne?

La risposta di per sé non è immediata, ed è resa ancora più difficoltosa dalla legge vigente e dalle ultime sentenze. Una di queste, commentata su ICTlex da Andrea Monti, facente riferimento a un prodotto audiovisivo, recita:

allo stato della tecnica quantomeno riferibile al 2004 l’apposizione di misure tecnologiche di protezione che impediscono anche l’esecuzione di una sola copia dell’opera non costituisce violazione del diritto di copia privata di cui all’art. 71 sexies L .A. (legge sul diritto d’autore, n.d.r.).

Ovverosia: una legge garantisce il diritto alla copia privata e alla copia di riserva, ma se delle misure tecnologiche apposte dal produttore la negano, ciccia. Contestualmente nessuna legge vincola il produttore dell’opera a fornire un’altra copia dell’opera qualora quella acquistata si deteriori.

Sembrerebbe dunque che, se formalmente viene riconosciuto il diritto alla copia privata/di riserva, sostanzialmente, quando in presenza di dispositivi anticopia, la controparte all’acquisto dell’opera sia il solo supporto, deterioratosi il quale il diritto di fruizione si estingue.

La pertinenza di questa lunga premessa col tema del DRM è elevata. Cesare, la affronta dal punto di vista del coder, e domanda che vi siano modalità idonee a proteggere il lavoro di un’azienda e chiede che un’azienda possa liberamente scegliere in che modo proteggere il frutto del lavoro dei suoi dipendenti.

Senza addentrarmi nei temi dei brevetti software e del reverse engineering, vorrei porre qualche obiezione a Cesare, mettendo l’accento sui diritti di coloro che, dopotutto, l’opera la pagano regolarmente, e in cambio si aspettano funzionalità, non la loro quota di “punizione” per la disonestà di altri utenti.

Fra il consumatore onesto che rivendica un uso più libero dell’opera acquistata e un’azienda che pretende il giusto compenso (ivi compresa una quota di profitto) per le sue opere, esiste una terza entità, che tutela l’uno e l’altra: l’ente regolatore, statale o sovrastatale.

Tanto quanto il consumatore non è libero di fruire di opere copiate illegalmente, l’azienda non è libera di applicare una disciplina sommaria per la lotta alla contraffazione, particolarmente quando gli effetti di questa lotta vengono a ricadere – accade per definizione – sulle spalle dei consumatori paganti.

Se in questa negoziazione non rientra un ente regolatore, l’azienda è libera di imporre le sue regole e il singolo consumatore diviene immediatamente la parte debole: per questo merita (e gli viene riconosciuta) tutela.

Per questo motivo obietto alla dicotomia consumatore-azienda di Cesare, secondo cui sostanzialmente il consumatore può tutelarsi solo con l’azione di non-acquisto, una tripartizione delle responsabilità, che inquadri in un arbitro regolatore il ruolo di conciliare le rispettive esigenze.

La logica del “desiderio” citata da Cesare infatti, non esaurisce le motivazioni per cui un consumatore si trova spinto ad acquistare un bene: esiste anche una necessità, dettata per esempio dalla presenza di standard de facto – popolari nel mondo software – già di per sé lesivi della concorrenzialità del mercato, nella patente latitanza di formati aperti.

Quando, ad esempio, si viene a negare o a contraddire un diritto sancito dalla legge, ostacolando – ben prima delle sentenze in merito – il diritto alla copia privata/di riserva, si danneggia l’interesse del consumatore e si ridefinisce attorno agli interessi di una sola parte in causa la contropartita del pagamento per il bene acquistato.

Quando poi, con gli strumenti del lobbying, si spingono gli enti regolatori ad acrobazie normative che regolarizzino lo stato di fatto stabilito attorno agli interessi di parte, diventa evidente la debolezza del consumatore onesto e pagante e la latitanza di un ente regolatore imparziale e autorevole.

Insomma, la legge non dovrebbe rappresentare il salvacondotto per la tutela degli interessi meglio rappresentati, ma tenere conto l’obiettivo della conciliazione di tutti gli interessi in causa. Raggiunto questo obiettivo, offerti agli utenti diritti ben delimitati, definiti e proporzionali al prezzo dell’opera acquistata, anche il più draconiano dei DRM diverrebbe accettabile.

Concludo segnalando questo botta&risposta fra me e Rosario circa il caso Ubisoft/DRM, in tre puntate (1, 2, 3).

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