Gaming: i limiti del touch screen (un appello agli sviluppatori)

Non è un mistero che l’enorme successo di iPhone e iPad abbia attratto una pletora di sviluppatori. Fra questi le maggiori software house del mondo gaming, ansiose di prendere parte a questo fenomeno di massa.

Nel tempo questo trend ha generato due tipologie di giochi: titoli nati sulle peculiarità dell’interfaccia touchscreen, e adattamenti di franchise nate e cresciute su PC o console. Alla prima categoria appartengono giochi come Fruit Ninja, la serie Angry Birds e una infinita pletora di giochi semplici e adatti ad una fruizione molto casual, fino ad arrivare a titoli con alte pretese – Infinity Blade per tutti. Nelle fila della seconda categoria compaiono porting di giochi diversissimi – dal mitico Duke Nukem a GTA, fino a Max Payne, ultimo, storico titolo PC a sbarcare su piattaforma iOS.

Poniamoci una domanda: se tutti gli sviluppatori si tuffano a pesce sull’interfaccia touchscreen, significa che questa rappresenta la panacea per ogni scenario d’uso? Credo che, quasi unanimemente, la risposta sia no, e mi piacerebbe che qualcuno nella non sempre creativa industria del gaming iniziasse perlomeno a inquadrare questo problema. Un problema d’altronde di facilissima spiegazione: i tradeoff imposti dal touchscreen sulla giocabilità sono enormi e spesso arrivano a snaturare completamente l’esperienza di gioco.

Bisogna non aver mai giocato Max Payne su PC per credere che la versione iOS possa lontanamente rendere il concept alla base del gioco, a partire dal senso di sfida nelle sparatorie. Il problema è insito nell’interfaccia che, ci piaccia (e piaccia ad Apple) o meno, limita severamente le possibilità d’interazione e l’accuratezza che il più banale dei joypad può fornire.

Saltiamo la sponda e prendiamo Infinity Blade, spesso usato come showcase delle capacità dell’iPhone/iPad: al di là della grafica, davvero impressionante, il gameplay consiste di un hack&slash ripetitivo, accompagnato da aspetti RPG che definire banali è dir poco. La sensazione è quella di muoversi in uno schema rigido e ripetitivo, che fa del gioco, dopo qualche ora, nient’altro che una prova d’abilità del dito indice. Che può essere interessante e longeva quanto vogliamo – parla uno che passa ore, fra gli improperi della moglie, a collaudare ogni minima modifica al set-up dell’auto su Forza Motorsport 4 – ma non rende Infinity Blade parente di un vero action-RPG ad ambientazione medievale più di quanto non lo fosse Dragon’s Lair.

Insomma, nel momento in cui le console portatili vanno cedendo sempre più il passo agli smartphone touchscreen, qualcosa si perde. Questo qualcosa non è altro che un controller sufficientemente accurato da consentire l’accesso a giochi meno che banali. Non so se riesco a spiegarmi: anche quando gioco mezz’ora sul treno vorrei qualcosa di più interessante che spaccare cocomeri o lanciare uccelli contro maiali! È così difficile da capire? Soprattutto, questo fa di me un hardcore gamer? No, no e no. Eppure l’industria del gaming sembra vada appiccicando l’etichetta “hardcore” su tutti coloro che chiamano videogame qualcosa di minimamente diverso da Farmville o Angry Birds.

Questo post nasce per lanciare un solo messaggio: ripensateci prima che sia troppo tardi. Se la ragione sociale di una Apple consiste nel convincere il mondo che col touchscreen si può anche fare anche il CAD, la ragione sociale di chi fa CAD rimane quella di sviluppare prodotti utili e completi per chi li usa. Per il gaming è quasi lo stesso. Se fuori dallo smartphone non si può stare, trovate un modo per renderlo un vero dispositivo da gioco. Mettetevi assieme per un controller unificato, rendetelo indispensabile per l’accesso ai vostri titoli, usate la vostra leva contro la banalizzazione del gaming imposta dal touchscreen. Il vostro lavoro non consiste nell’aiutare questo o quel produttore di device a convincere il mondo che con questo o quel device si possono fare cose mirabolanti con un solo dito.

A ballare la musica che suonano Apple e Samsung, a sviluppare prodotti piatti e brevi fino a sembrare usa e getta, a spendere franchise storiche in titoli insignificanti, finirete per sminuirvi. Da una trasformazione del vostro mercato in una pletora di casual gamers sarete i primi a rimetterci: quel mestiere c’è già chi sa farlo meglio di voi. Difendere la cultura del gaming è una parte non sacrificabile del vostro core business, costi quel che costi.

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