Musica digitale: qualcosa abbiamo perso, ma cosa?

Un titolo del genere sembra giungere dalla fine degli anni ’90, dall’epoca dell’esplosione di Napster e del P2P. Eppure è più attuale in questi giorni, dopo che un decennio di musica digitale sta davvero debellando il CD, dopo che il business della distribuzione musicale digitale va in qualche modo stabilizzandosi attorno a due modelli: streaming in abbonamento e download a pagamento.

Ultimo in ordine cronologico a puntare l’indice contro la musica “liquida” è Slash, già chitarrista dei Guns ‘n’ Roses, il quale vede nella musica scaricata qualcosa di privo di ogni magia, un’entità impersonale, laddove ai tempi del CD avevi un libretto da sfogliare con testi da leggere, foto. Un minimo di contesto dietro le note ascoltate, per entrare in una relazione più profonda con l’artista.

C’era poi l’album, spesso composto da un paio di hit e una serie di corollari di bassa qualità, a volte tuttavia latore di un’esperienza non scindibile in singole parti, e in qualche rara occasione composto da una serie capolavori – Rubber Soul dei Beatles o Pet Sounds dei Beach Boys per dire i primi due che mi vengono in mente.

C’era infine una qualità di registrazione piuttosto uniforme e comunque migliore di quella offerta dall’audio compresso, particolarmente quando fruito in modo “casual”, in mobilità. Almeno questa è la posizione di Neil Young, su una diatriba – musica liquida vs supporti fisici – che va avanti da decenni. Diatriba che Apple ha tentato – forse invano – di comporre con “Mastered for iTunes”, una soluzione che tuttavia non fuga molte perplessità circa i formati di compressione lossy.

Ho volutamente volato radente sui temi di cui sopra – di cui ben sapete e d’altronde abbiamo parlato spesso – per soffermarmi su un punto che mi pare si trovi a monte di tutto ciò. È una domanda che mi assilla da tempo e alla quale francamente non vedo monte risposte: in che modo la digitalizzazione del business musicale sta retroagendo sull’esperienza finale della musica?

Lo dico, badate, partendo da una fede storica e (inizialmente) incondizionata sulle magnifiche sorti e progressive dei nuovi modelli distributivi.

Sarebbe facile intavolare un discorso sul fatto che la musica di oggi non vale come quella di allora, che di Pink Floyd, Jethro Tull, Bob Dylan, o anche Skid Row e GnR, non se ne vedono più da anni. Che le glorie del passato si sono tutte imbolsite e dopotutto non c’è stato un ricambio generazionale. Che in tempi di vacche magre il marketing si è impossessato della produzione musicale. Entreremmo in territorio di opinioni, peraltro incardinate nell’anagrafe di ciascuno, senza arrivare da nessuna parte.

Il problema a mio avviso è la dispersione, l’atomizzazione della musica. Cerco di delimitare il concetto anche se so che sarà dura data la vastità del tema e lo spazio limitato a disposizione. Un po’ come le notizie – che diventano atomi fuori contesto mano a mano che le testate giornalistiche perdono d’importanza nella “dieta informativa” di ognuno di noi – anche la musica sta diventando atomica, dispersa al di fuori di percorsi non dico di genere ma di comprensione. iTunes Music Store bombarda il visitatore con centinaia di input simultanei. Cento volte il catalogo dei più grandi negozi di dischi di un tempo, senza l’ombra di un venditore a consigliarti un ascolto, ad aiutarti a costruire il tuo percorso musicale. Un percorso, c’è da tenerlo presente, che inevitabilmente alla fine escluderà molto più di quello che includerà. In altre parole, come rispose Eco ad una domanda del sottoscritto circa le logiche che dovevano presiedere alla creazione di ipertesti, si rischia che il turista arrivi a Bologna e si perda la visita a Piazza Maggiore.

Di fronte alla gravità e portata di questo problema quelli sollevati sopra mi sembrano piuttosto banali, se non del tutto campati in aria. Eppure non vedo clamore mediatico e spremitura di meningi su questo tema, non certo in proporzione alla sua importanza. Lo stesso business musicale guarda da un lato (quello delle major) ai margini, dall’altro (quello degli intermediari digitali) alla disponibilità, senza il minimo accenno di attenzione verso il problema della contestualizzazione e della selezione, dell’ordine nel caos che la digitalizzazione ha creato.

Se dovessi nominare una direzione per la soluzione del problema sollevato, questa si chiamerebbe “curation”, ma con una logica gerarchica, basata sull’esperienza, non certo numerico-statistica (le hit si Beethoven scelte dai nostri utenti!). Una digitalizzazione non più della musica, ma di quelle figure – ne conoscerete mezza dozzina almeno – che nella vita di ognuno finiscono per fungere da “hub” di competenza musicale, impossibili da “emulare” su basi puramente algoritmiche o social. Vivremo abbastanza per ricordarcene?

PS Mi verrebbe da nominare anche la radio fra le possibili soluzioni al tema della “curation”, se non fosse che, digitalizzatesi e moltiplicatesi anche quelle, sarebbero esse stesse da “curare”!

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