L’informatica e l’autoarcheologia

Digital BrainFin dai tempi dei monaci benedettini ed ancora prima, esiste il problema della conservazione delle informazioni, della cultura, dell’arte. Da quando esiste l’informatica, esiste una nuova ramificazione del problema, che riguarda la conservazione dei dati digitali.

In questo post mi occuperò della porzione del problema della conservazione dei dati digitali che concerne l’utente finale, e del riverbero di questo nuovo scenario nel rapporto che l’uomo intrattiene col proprio passato.

L’obiettivo è ambizioso e il tema vastissimo. Mi limiterò perciò a lanciare alcuni spunti di riflessione.

La scintilla che dà vita a questo post, scocca dall’incontro di due considerazioni:

1) oggi possiamo disporre di enormi spazi di archiviazione dati, a prezzi irrisori;

2) mai come prima sono accessibili a chiunque, a prezzi bassissimi, strumenti per la produzione di contenuti quali macchine fotografiche, videocamere etc.; ogni computer è poi equipaggiato con strumenti software che ci consentono di registrare moltissime delle nostre attività, dalle spese domestiche fino al log delle nostre chat.

La compresenza di questi due fattori rende ciascuno di noi produttore e addetto alla conservazione, di enormi quantità di dati. Poco importa che la maggior parte di questi sia ciarpame: da un lato, al crescere del loro volume, diviene più facile conservarli che scremarli. Dall’altro è comunque materiale significativo perché porta la nostra traccia e liberare un mega o due (quanto basta per raccogliere un migliaio di pagine in formato testo) non ha molto senso quando lo storage a nostra disposizione si misura in TeraByte.

Come abbiamo già sentito dire ovunque, la nostra vita, o buona parte di essa, è “digitalizzata”, e va sempre più digitalizzandosi, il che fa dei nostri hard disk delle miniere d’informazioni personali.

Dando per scontato che non incorriamo in macroscopici problemi di perdita dati – causati da smarrimento degli stessi o dal fatto che questi diventino inaccessibili a causa dei formati chiusi in cui sono spesso codificati – le condizioni citate ci preparano un futuro da archeologi della nostra stessa vita.

Se guardiamo alle generazioni precedenti, si tratta di un fatto inedito: nessuno prima di noi ha prodotto e archiviato un simile volume d’informazioni – esatte –  sulla sua vita. Si tratta di una novità comparabile a quella delle sostituzione della scrittura alla trasmissione orale della cultura, se vogliamo un tendenzialmente definitivo azzeramento dei sistemi di trasmissione orale, di tutte quelle inesattezze, aggiunte, rielaborazioni, attorno cui sono nati spesso miti e leggende, ma che pure cadono nel novero dei fatti culturali.

Strati geologici di vita archiviata e più o meno ordinata, nella nostra vecchiaia, rappresenteranno la versione più completa e fedele possibile di un diario di bordo. Chi come me è nato negli anni ’70, magari si ritroverà con una sola parte della vita digitalizzata, il resto appartenendo a un’epoca in cui le macchine fotografiche formato 110 e gli album rosa o azzurri, compilati a mano da madri premurose, registravano il debutto alla vita dei nuovi arrivati.

I nati dopo il 2000, magari figli di padri appassionati d’informatica, avranno invece l’intera vita digitalizzata, e magari anche qualche foto scattata di nascosto in sala parto.

Tutto questo senza neppure considerare la parte della produzione d’informazioni che, più o meno consapevolmente, consegniamo alla memoria collettiva sotto forma di blog, social network etc.

Questa autoarcheologia avrà un ruolo dominante nel futuro della nostra e delle successive generazioni, aumenterà a dismisura i rischi inerenti la privacy, la necessità di conservare i dati, ma soprattutto ristrutturerà, come già sta ristrutturando, il ruolo della memoria, intesa come facoltà dell’intelletto umano.

Nella misura in cui alla macchina sarà sempre più consegnato il ruolo di memorizzare, a noi resterà quello di cercare e collegare. E magari, con un’interfaccia neurale a Google, della memoria potremo fare del tutto a meno, anche per quel che concerne le nozioni più elementari – ferma restando la proprietà del linguaggio, elemento a cui anche il futuro riserva un ruolo cruciale.

Consegnata la nostra memoria alle macchine saremo uomini diversi, con strutture cerebrali modificate ma soprattutto, nudi di fronte all’eventualità di avere la spina del computer staccata, la vita formattata.

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