Spotify è il prodotto che nasce all’incrocio di due traiettorie. Da un lato quella di Internet, le cui capacità di accelerazione della filiera distributiva vanno unendosi ad una crescente sensibilità verso economie sostenibili. Dall’altro quella dei rightholders, l’insieme dei detentori di diritti d’autore, i cui modelli di business diventano giocoforza sempre più centrati sulla distribuzione online, on demand.
In un certo senso è il prodotto che tutti coloro che hanno osservato l’evoluzione delle due citate traiettorie attendevano come naturale evoluzione della distribuzione musicale ai tempi di Internet: la rete ha reso possibile l’accesso, gratuito o a prezzi molto ridotti rispetto al passato, ad una mole agli effetti pratici infinita di informazione – uso il termine infinito volendo significare tutto ciò che va di un passo oltre le capacità cognitive dell’individuo.
Nel caso della musica, e veniamo al dunque, infinito è tutto quello che va oltre la capacità di ognuno di stabilire un rapporto più che superficiale, finanche empatico, con un un album, una band, un messaggio espresso nella forma artistica musicale. Capacità intesa come opposta a una generalizzata “vigile disattenzione”, dentro la quale ogni stimolo emerge dal rumore di fondo in modo del tutto effimero, superato immediatamente da uno stimolo successivo.
In effetti, se da un lato Spotify è una pietra miliare nella strada che porta alla sostenibilità dell’industria dei contenuti, dall’altro espone al rischio concreto di ridurre anche la musica allo stadio rumore indistinto che già le notizie hanno raggiunto da tempo.
Un accesso illimitato ad un bacino ai fini pratici illimitato di musica, richiede per definizione una proporzionalmente illimitata capacità di filtraggio e selezione. Essendo però la capacità di selezione più o meno commisurata alle nostre abilità cognitive, non è lecito supporre che possa estendersi all’infinito, ovvero in ragione dell’aumentata accessibilità della musica.
Come s’inserisce Spotify in questo scenario? Come impatta sulla mente di un uomo che la musica ha iniziato ad ascoltarla, sempre la stessa, sul mangiadischi Penny o al limite sullo stereo Telefunken di papà?
Chi come me è nato negli anni ’70, ha senz’altro vissuto in uno scenario di “scarsità musicale”. Nel 1987 comprai, assieme allo stereo, Nothing like the sun di Sting e But Seriously di Phil Collins. Per mesi furono gli unici CD che ascoltai, assieme a qualche cassetta che sempre meno tolleravo a fronte della comodità del CD. Inutile dire che li conosco, a distanza di quasi 30 anni, praticamente a memoria.
Ai tempi del P2P, lo ammetto, mi fornii di molta più musica di quanta riuscissi ad ascoltare. La caduta di un primo limite – quello della banda e della connessione che non occupava il telefono doveva ancora cadere – mi avviò verso una situazione di sovraccarico, nella quale per anni sono rimasto immerso. Con l’arrivo degli store musicali online, iniziai ad acquistare la musica con più criterio e ad ascoltarla – quella acquistata – con maggiore frequenza. Di lì a poco iniziavo ad eliminare a colpi d’accetta i “rami morti” della mia ipertrofica libreria, e a farmi domande del tipo: quanta musica posso realmente apprezzare? quanti album porterei con me in un’isola deserta?
Per questa strada sono arrivato a convincermi che dopotutto la mia mente fosse più affine alle limitazioni della musica “1.0” che alle disponibilità illimitate, che pure attendevo con ansia, dei tempi di Internet. Dopo un periodo di prova, ho dunque realizzato che usavo Spotify prevalentemente come radio (e che come radio tra l’altro ha evidenti limitazioni). Ho realizzato che non avevo tempo e modo, e lo dico con qualche rammarico, di usarlo per scoprire nuova musica, e che dunque era meglio continuare a razzolare nel mio orticello, da allargare, eventualmente, un album alla volta, dopo accurata ponderazione. Come?
Rippando vecchi vinili e, superata con gli anni ’90 la l’illusione dell’onniscienza abilitata dal web, sperando nell’arrivo un servizio di musica ad alta risoluzione, con contenuti autorevoli a guidarmi verso nuove scoperte – esattamente come un buon sommelier guida alla scoperta del vino: senza “impazzirgli” il palato, senza ubriacarlo.
Concordo, ci sono album che conosco a memoria (salti inclusi) perché il CD era l’unico modo per ascoltarli, quindi li consumavi a furia di sentirli. Poi arrivò l’MP3, ricordo che andavo in moto con un lettore da ben 256 Mb, su cui ci tenevo un cd per volta e basta (e anche quelli li conosco a memoria).
Spotify non credo che lo prenderò, già con Deezer (che uso da un po’) tendo ad ascoltare sempre le stesse cose, proprio perché è difficile andare a pescare qualcosa di nuovo. Forse è proprio dovuto alle infinite scelte date dal web, o forse dalla scarsissima qualità della musica odierna (che sia proprio dovuta alla possibilità di scaricare tutto?).
Concordo sostanzialmente con Alessio, con qualche distinzione (io rimango inevitabilmente legato al CD o al vinile, alla dimensione dell’oggetto fisico, insomma).
Le infinite collezioni digitali mi ricordano quando da ragazzino accumulavo dischetti blu più per collezionismo che per usarli veramente. Ad un certo punto me ne resi conto, e smisi di intossicarmi di accumuli.
Diciamo pure che la cultura musicale media è letteralmente crollata negli ultimi 15-20 anni. Il ché però non si collega necessariamente ad un peggioramente dell’offerta artistica, evidente a livello mainstream (dove la maggioranza degli “artisti” si occupa di PR e merchandising, più che di musica), ma non negli ambiti di nicchia e nell’enorme scena professionale o amatoriale che si nasconde sotto il mainstream stesso (e che, invece, dalla rete ha avuto mezzi e nuove opportunità prima impensabili).
Insomma, un quadro complesso.
Tempo fa mi è capitato di chiedere cosa ne pensava della questione a Brunori Sas, che la definiva come “sindrome da buffet” (penultima domanda dell’intervista):
http://www.homerecording.it/articoli/interviste/1474-intervista-a-dario-brunori.html
Andres, anch’io farei volentieri a meno della musica liquida ma il tempo, la variabile indipendente di ogni equazione quotidiana, mi mette nella condizione di dipenderne. È troppo più pratica e per questo mi piacerebbe ascoltarla meglio, con formati meno compressi.
Se il decadimento della qualità musicale sia causata o meno all’impoverimento dell’industria discografica è difficile dimostrarlo. Certo oggi prevalgono logiche di breve respiro. Certo queste logiche sono più coerenti con un’industria che ha urgenza di monetizzare. A pensarci bene anche i grandi del rock hanno fatto molti riempitivi e/o hanno prolungato la propria carriera ben oltre l’ispirazione, in tempi certo non sospetti. A volte ho la netta sensazione che la musica usa&getta rispecchi lo spirito di questi tempi. Qualora si riavviasse una trasformazione collettiva simile a quella degli anni ’60 e ’70, le logiche di profitto delle major potrebbero opporvi ben poca resistenza.
A me personalmente l’offerta di spotify piace. Non mi definisco un esperto di musica ed i miei gusti sono abbastanza vari. Spotify mi offre la possibilità di esplorare e di scegliermi, di volta in volta, quello che desidero ascoltare su una vasta gamma di dispositivi.
Capisco le vostre critiche ed in parte le condivido, la vastità dell’offerta richiede tempo ed organizzazione per essere gustata e non sempre si ha. Riguardo alla qualità musicale, forse l’offerta pressoche infinita rende più difficile apprezzare e ascoltare in modo critico tutto quello che ci arriva alle orecchie, ma non credo sia spotify il problema. Piuttosto reputo che sia un certo tipo di strategia commerciale delle major ad esserne la causa. Ormai da anni sfornano a raffica nuove stelle, bruciano in un attimo, cercando di attirare il maggior numero di utenti possibili con una sorta di musica casual, e poi spariscono. E’ un po’ quello che avviene con nel mondo dei videogames.
Nat, non credo affatto che spotify sia il problema. Mi pare piuttosto che l’internettizzazione della distribuzione musicale sia portando il rapporto fra musica e ascoltatore in un terreno esterno alla mia comprensione.
Penso che bisognerà aspettare le reazioni dei nativi digitali per valutare complessivamente questa situazione.
Per noi vecchi nati con il vinile è facile cadere nella sindrome del reduce e valutare la nuova situazione con vecchi strumenti.
Pure io mi ritrovo ad ascoltare “liquidamente” gli album che apprezzavo negli anni ’70 e ’80, con il passare degli anni il tempo si comprime sempre più e non ne resta tanto per esplorare nuovi gruppi e nuovi generi.
I fondo mi va bene così.
purtroppo una volta entravi nei negozi di musica per ascoltare la musica sui loro impianti e sentivi sempre qualcosa di nuovo..
ti affascinavi degli impianti e della musica in se..
adesso la musica la ascolti troppo.. in macchina, al bar, al supermercato, al computer.. con le cuffiette.. con cassine ridicole.. in mezzo al rumore.. distrattamente.. quasi per avere un “rumore di fondo” diverso..
una volta si metteva su un disco/cassetta/cd.. ci si siedeva sul divano.. in penombra.. si chiudevano gli occhi… e si Ascoltava.. sognava.. percepiva gli strumenti.. la stereofonia.. l’insieme.. il dettaglio.. e si cercava una musica che riempisse la stanza e il cuore.. e non un rumore che si sostituisse a quello delle ventole del pc o del traffico esterno..
secondo me il problema non è spotify o l’enorme vastità di musica che apple o spotify mettono a disposizione.. ne la qualità di quello che c’è in questi cataloghi..
il problema è la qualità degli ascoltatori e del tempo che essi dedicano alla musica..
Giacomo, la sensazione è che i “nativi digitali” si perderanno qualcosa, come ce lo stiamo già perdendo noi. Un rapporto superficiale, con qualunque produzione culturale, rimarrà sempre menomato rispetto alla completa partecipazione, alla sintonia con qualcosa che si apprezza profondamente. Dopotutto questi nativi digitali non è che nascono con più neuroni di noi. L’onniscienza è e rimarrà una chimera, di cui anche una Internet impiantata nel cervello non potrà mai essere più che un vuoto simulacro.
Notturnia, sono pienamente d’accordo. Cambiano le modalità di fruizione in direzione di una maggiore superficialità. Proprio per questo sarebbe auspicabile salvare il salvabile, favorendo, nel perimetro disegnato dai ritmi dei tempi moderni, la fruizione non dispersiva di musica di qualità. Non sottovalutate il concetto di curation.
Be, IMHO dipende molto dalla banda disponibile.
Attraverso una carissima linea 56K di 15 anni fa è ovvio che la priorità fosse riuscire a scaricare e poi fare una cernita in locale, mentre con una ADSL entry level attuale è molto più fattibile esplorare le offerte musicali e poi scaricare (o acquistare, ora che ci sono offerte quasi ragionevoli) solo quello che interessa anche se abbiamo HD un migliaio di volte più capienti.
Il vantaggio, che oggi la ricchezza di banda rende ancora più evodente, è poter esplorare anche di settori musicali alternativi che difficilmente sentiresti su radio o anche in un negozio di dischi (tralasciando il fatto che la mercificazione degli anni ’90 li aveva resi meno tecnici e più commerciali, aprendo inevitabilmente la strada al rimpiazzo da parte dei supermercati e negozi di elettronica, che se il gioco si faceva solo sui prezzi delle hit del momento NON erano battibili dai negozi specializzati).
Anche se poi il new-web 2.0 o 3.0 o a quanto siamo arrivati [in cui i siti degli appassionati sono sempre più irrilevanti in termini di visite e reputazione, i forum sempre più pieni di ca**ari, spammers e sockpupet delle case discografiche, e il grandi numeri li movono siti e apps istituzionali sempre più targettizzati a clicco(o touch…)scimmie puramente consumatori di contenuti] favoriscono alla fine le promozioni delle major a discapito dei gruppi emergenti per i quali il web 1.0 sembrava il media libero e neutrale in cui rimettere in gioco gli equilibri di potere.
Evidentemente a qualcuno non fa piacere che gli equilibri di potere siano messi in gioco…
NOOOOOOO!!!!
IL MANGIADISCHI PENNY!!!!
IO CE L’HO!!!!!!! :-O
la ggente ha ascoltato talmente tanta musica che adesso inizia a farsela in casa.
tra chitarre da 200 euro, tastiere e computers che non hanno più latenze avvertibili, qualità 24 bit anche con schede da 100 euro.
la musica di qualità è alla portata di tutti.. e poi c’è il math noise rock.. che più è scadente più è fiquo.
Praticamente stai chiedendo ciò che esiste da anni nel mondo Apple: iTunes + Genius.
Purtroppo chi rimane chiuso nel mondo Windows, non può capire quanto avanti sia Apple.
Chiedete cose che sono state risolte al WWDC del 2008.
Alberto, iTunes+Genius non rispondono a quello che nell’ultimo paragrafo auspicavo in questi termini:
“un servizio di musica ad alta risoluzione, con contenuti autorevoli a guidarmi verso nuove scoperte – esattamente come un buon sommelier guida alla scoperta del vino: senza “impazzirgli” il palato, senza ubriacarlo.”
Innanzitutto perché non definirei un AAC a 256kbit musica ad alta risoluzione. E poi perché il lavoro di “curation” a cui facevo riferimento non può essere affidato ad un algoritmo. Lo dico partendo anche da una certa esperienza – poco soddisfacente – con Genius.
Il problema non è la musica illimitata, internet, gli mp3 etc,etc..il problema è che manca musica di qualità e alla fine finisco per ascoltare quei 10-20 album dei soliti artisti di venti e più anni indietro.
La musica non è il rumore di fondo di qualche canzoncina orecchiabile o almeno non è solo quello…l’involuzione qualitativa degli ultimi venti anni è stata drammatica.
x birba:
la musica di qualità non è alla portata di tutti solo perchè c’è internet (ottimo canale distributivo) o per via dei mezzi tecnici alla portata di tutti…per prima cosa bisogna anche avere qualcosa da dire (cosa non scontata) e la capacità tecnica (voce e strumento) per comunicarla.