Ricordando (e rimpiangendo) Dungeons&Dragons

In questa nuova puntata della rubrica dedicata alla nostalgia informatica, andremo un po’ fuori tema per rievocare una diatriba lunga quanto la storia dei videogiochi: il rapporto fra computer ed RPG.

Per molti anni della mia adolescenza sono stato un assiduo frequentatore dei Forgotten Realms, ma anche di Ravenloft, con qualche sporadica puntata a Dragonlance e perfino a Dark Sun.

Per chi fosse nuovo al mondo RPG – a scanso di equivoci, quelli che si giocano su computer e console si chiamano CRPG – i nomi elencati fanno riferimento ad altrettanti mondi dell’universo di Dungeon & Dragons, nella fattispecie dell’AD&D, un set di regole più restrittivo del primo set creato dal compianto Gary Gygax, che tra l’altro, tanti videogiochi ha ispirato (qui un approfondimento).

Un RPG si svolge fra giocatori “fisici”, presenti nella stessa stanza, armati di penna e carta – miniature e mappe esagonali per i più raffinati. L’azione si svolge sotto lo sguardo e il controllo attento di un “master” o DM, il cui ruolo è fondamentalmente quello di guidare il party attraverso l’avventura (dopo averla eventualmente creata), assicurare l’osservanza delle regole, dare voce e strategia ai personaggi non giocanti e ai mostri.

Nascosto dietro al suo proverbiale dungeon master screen, con lo sguardo sadico di chi per qualche ora ha il potere assoluto sulla vita e la morte dei poveri personaggi, il DM racconta tutto quel che succede attorno ai giocatori, dal “vi trovate in una taverna molto chiassosa e vedete passare una gran gn***a, che fate?” fino al tremendo “tira un dado da 20” (quelli che si usano per i tiri salvezza).

Il gap fra le parole con cui il DM racconta l’azione e il senso dell’avventura, è chiuso da null’altro che la fantasia dei giocatori, i quali sono chiamati a interpretare le situazioni davanti a cui sono posti e a reagire in modo coerente con le minacce e le opportunità che si presentano.

Succede che negli RPG, così come nei CRPG in generale e nei MMORPG in particolare, i personaggi possano incontrare tesori di varia natura nonché, con l’andare avanti del tempo, crescere come esperienza e dunque aumentare di livello, ovverosia acquisire la possibilità di fare più attacchi e più letali, memorizzare più incantesimi e di livello più alto e via discorrendo.

La prospettiva di avere un personaggio più forte, temibile e meglio equipaggiato, è estremamente allettante per il giocatore in ogni genere di RPG, dai tipi da carta e penna ai “cugini” online. La rincorsa al livello o all’oggetto magico, rappresenta tuttavia un’interpretazione molto limitante del concetto stesso di RPG – il cui significato è gioco in cui si interpreta un ruolo – che richiederebbe al contrario capacità di immedesimazione nel personaggio, comprensione delle sue caratteristiche (a partire dall’allineamento), immersione totale nella trama.

Ora la domanda che mi pongo è la seguente: con l’informatizzazione degli RPG, divenuti CRPG e poi MMORPG, stiamo perdendo qualcosa? Ci sono elementi che si stanno ipertrofizzando e altri che stanno sparendo? Io credo di sì.

Punto nodale del problema è il DM, la cui abilità si misura innanzitutto nella capacità di contenere i “bassi istinti” dei giocatori – tentati dalla crescita lineare in potenza ed equipaggiamento – e condurli, senza frustrarli, a gustare le pieghe della trama che ha concepito.

In quest’ottica, un cattivo DM è quello che si rende complice di questi bassi istinti e, dopo aver peccato di eccessiva indulgenza nei confronti dei giocatori, si trova a dover gestire veri e propri carrarmati, capaci di radere al suolo mezzo Monstrous Manual (il manuale delle creature di AD&D) in un round.

Affrontiamo poi il discorso del ruolo: in un RPG dadi, carta&penna, il personaggio deve omologare il suo comportamento all’allineamento (semplificando, l’orientamento “etico”), al suo background, alla sua classe di appartenenza e alla tipologia di personaggio scelto. Mancanze in questo senso vengono penalizzate dal DM in termini di malus sui punti esperienza a fine partita, e l’agognato “level-up” si allontana, in barba al numero di mostri sterminati.

Nei CRPG, in cui il personaggio si trova ad interpretare una trama più o meno statica, la necessità di passare per tappe obbligate diluisce il peso del “level-up” come unico obiettivo del gioco. Malgrado eccezioni come Diablo, in cui la carneficina costituisce il 90% dell’azione, non mancano nella storia giochi di ruolo in cui la comprensione della trama assume un ruolo cruciale, da Monkey Island fino ad Ultima o al molto rimpianto Deus Ex.

Se nei CRPG l’impalcatura statica della trama costringe a dei passaggi di role playing – attraverso risposte a scelta multipla o altri trigger dispersi nella trama che mutano radicalmente l’esito della missione – nei MMORPG una trama non altrettanto cogente lascia il giocatore libero più o meno a 360°.

Il giocatore si trova così proiettato in una serie di quest che prevedono il ritrovamento di oggetti e la sfida a boss sempre più imponenti, spesso intrecciate fra loro,

Specialmente se male interpretato, il MMORPG si trova ad essere molto più unidirezionale di quanto non lo sia un CRPG con trama statica: nella completa libertà di movimento e di azione la corsa al “level-up”, la sfida di mostri sempre più grossi, la conquista di oggetti sempre più potenti, sostituisce l’avanzamento verso la soluzione o le soluzioni a cui si tende giocando un normale CRPG.

Come ricordava giustamente un lettore nei commenti al post sulla saga di Ultima, il problema non è intrinseco ai MMORPG ma dipende anche dalla “qualità” dei moltissimi giocatori presenti contemporaneamente:

Un gioco di ruolo non ha uno scopo in sé, e UO per me era bello per questo. Sono i giocatori a dare un senso. Chiunque ami i giochi di ruolo sa che non è facile trovare 4 o 5 persone valide per fare qualche campagna di D&D, figuriamoci quanto può scadere il gioco se ci si trova in 5.000 contemporaneamente nella stessa partita.

Io ricordo di aver formato una gilda fatta di persone che amavano calarsi nella parte dei loro personaggi, recitavamo in sostanza. I dialoghi erano inerenti alla vita dei personaggi stessi e quando volevamo uscire dai nostri Avatar usavamo categoricamente ICQ. Non parlavamo mai di skill o di altre componenti “tecniche” del gioco e ci eravamo prefissi uno scopo da raggiungere e mantenere.

Figurarsi che gioia, restando su Ultima online, trovarsi in gruppo a parlare di donzelle, palafreni e stocchi incantati mentre il lamerone di turno “macra” comodamente qualche skill o passa a fianco il solito idiota che porta a spasso un demone come fosse un barboncino.

In questo senso, se già i CRPG privano il concetto di RPG di quel tocco di imprevedibilità e se vogliamo d’improvvisazione che vi aggiungono il DM e i giocatori, allorquando architettano soluzioni impreviste dal DM, i MMORPG, se male architettati e/o male interpretati, rischiano di ridurre l’obiettivo del “giocare di ruolo” ad un progressivo potenziamento (qui un interessante contributo di Rosario Grasso nel merito).

Così, raggiunto il massimo del livello consentito e dell’equipaggiamento, perfezionate le tecniche di combattimento, o si parte da zero con una nuova classe, o si attende la successiva espansione. Senza contare i casi non infrequenti in cui si acquista direttamente un personaggio “livellato” da pazienti giocatori cinesi, o si acquista equipaggiamento con danaro reale, sempre per togliersi l’impagabile soddisfazione di schiantare mostri in un sol colpo o magari far carneficine in modalità PVP.

Se pure il problema, come già detto, non appartenesse strutturalmente al genere MMORPG – e qui andrebbe aperta una parentesi su quanto questi giochi portino in sé i germi di questo “malcostume” – il fatto che i server siano popolati da giocatori che interpretano il gioco di ruolo in questo modo, è piuttosto demotivante per i neofiti e tanto più lo è per chi intende l’acronimo RPG nel suo vero senso.

Malgrado l’ottima applicazione del concetto di teamplaying, i MMORPG a cui mi sono accostato mi hanno trasmesso quella stessa sensazione che ho provato accostandomi a gruppi di RPG popolati da master permissivi e personaggi irragionevolmente avanzati come livello ed equipaggiamento: meglio tenersene alla larga.

Per carità, anch’io ho il mio guerriero di 25° ricoperto di artefatti, colpibile solo da un 20 naturale, che in un round può sterminare mezzo Monstrous Manual. Ma cosa ci posso fare più? Dovrei forse portarlo a Dark Sun, o nel Planescape a prendere a farmi prendere a sberle da qualche demigod fra regole esoteriche degne di un cabalista?

Gli ho costruito un castello e poi l’ho messo in bacheca, con tanto di disegno a matita della sua doppia forma – umana e da minotauro. E quando gioco, quelle ahimé rarissime volte, mi piace ripartire da un livello ancora accettabile, tanto per il gusto di temere un drago, la creatura più fiera dell’universo fantasy, invece che ridergli in faccia. I superpoteri non sono poi così divertenti quando ti ci abitui. E anche il meccanismo del mostro sempre più potente, alla lunga, annoia.

D’altronde, fin da quando ho iniziato a giocare di ruolo, da appassionato di computer, sogno un contesto in cui il computer riesca a “potenziare la fantasia” nella resa di scontri, battaglie campali, soste in taverna. Non certo a riassumere ed “automatizzare” quel rapporto di amore e odio che lega un giocatore al suo sadico DM. Sarà l’età che avanza o un principio di sindrome di Stoccolma?

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