Olivetti M20: quando Cupertino era “provincia d’Ivrea”

Image courtesy of Polito.itPer questa nuova puntata della rubrica dedicata agli irriducibili della nostalgia informatica, torniamo a parlare del più grande fallimento nazionale del settore tecnologico, Olivetti, prendendo in prestito un titolo apparso nel numero 27 di una rivista informatica storica, Bit, datato aprile 1982 e riportato per intero nell’ottimo sito linkato in fondo.

Protagonista dell’articolo di allora e del post di oggi, è il primo personal computer dell’azienda di Ivrea, equipaggiato fin da principio con una CPU a 16bit: l’M20. Una macchina destinata all’insuccesso commerciale per motivi che analizzeremo, ma che racconta di un periodo molto significativo per la successiva evoluzione del settore.

Mi perdonerete se torno sempre ad Apple, ma vale la pena di ricordare che la Olivetti aprì una sede a Cupertino nel 1972, quando Jobs era ancora un fricchettone impiegato in Atari e Wozniak pianificava il resto della sua vita in HP. Mi piace ricordare questi dettagli non tanto per spacconeria campanilistica, quanto per dare l’idea dell’enorme vantaggio che l’azienda di Ivrea, oggi ridotta perlopiù a marchio per fax e stampanti cinesi, ha lasciato per strada.

Veniamo al dunque.


Nel 1981, a sei mesi dal lancio del primo PC-IBM, Olivetti annuncia M20, equipaggiato con CPU Z8001, a 16 bit “reali”, ossia nell’ALU e nel bus dati. Come tradizione per la casa di Ivrea, M20 è un computer molto curato dal punto di vista del design – realizzato ancora una volta da Sottsass – e ottimamente fornito sul fronte tecnico. Sotto molti aspetti dunque superiore alla controparte IBM, il 5150, motorizzato Intel 8088.

Iniziamo dalla CPU: prodotto dalla ZiLOG e parente alla lontana dello Z80, Z8001 rappresenta un enorme passo avanti come potenza computazionale rispetto  al predecessore  – che equipaggiava tra gli altri molti home della Sinclair – ma una rottura dal punto di vista della retrocompatibilità.

L’accoppiata Z80-CP/M era infatti estremamente popolare all’epoca e molto software già circolava sulla piattaforma, che di fatto rappresentava la principale alternativa all’accoppiata MS-DOS/x86. Olivetti decise invece di equipaggiare M20 con un OS proprietario, PCOS, il che si rivelò una scelta deficitaria anche a causa dei potenti mezzi con cui già allora IBM lavorava – a braccetto con Microsoft – per la costruzione di quello che sarebbe divenuto poi lo standard di mercato (e la causa della sua uscita dal mercato PC qualche lustro dopo).

Dimostra la veridicità di questa considerazione il successivo equipaggiamento del computer con una scheda x86, che consentiva l’esecuzione di applicazioni MS-DOS, e il phasing out del sistema a vantaggio del più celebre M24.

Interessante la documentazione su M20 raccolta nel sito Autopsie di retrocomputer – cui dobbiamo anche l’articolo citato nel titolo – leggendo la quale apprendiamo che la defunta rivista Micro&Personal Computer nel 1984, a più di due anni dal debutto di M20, attribuiva il suo insuccesso all’essere M20 una macchina non standard.

Ma dov’è scritto che per un colosso com’era allora Olivetti, adeguarsi agli standard altrui fosse l’unica via? A buon diritto l’azienda eporediense tentava la via della piattaforma chiusa: una via che per molti anni avrebbe tenuto banco nel settore home e personal computer, col succedersi di numerose e vendutissime architetture alternative.

Da una migliore strategia di convivenza col parco software esistente e dalla “coltivazione” di un ecosistema software, Olivetti avrebbe infatti potuto guadagnare un suo mercato, più resistente alla concorrenza, ricco e autonomo di quanto non si sarebbe rivelato quello degli IBM-compatibili – malgrado il successo di M24.

Aprire insomma la strada poi seguita da Apple la quale, osservando M20, scopriamo non essere stata la prima a dimenticare il tasto CANC sulla tastiera.

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