Apple Pippin: quando le mele cadono lontano dall’albero

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Gli amanti del marchio dalla mela morsicata se la passano bene ultimamente; la compagnia cresce in praticamente tutti i settori, le vendite dell’hardware vanno a gonfie vele (AppleTV a parte) e il titolo in borsa seppur le previsioni leggermente al ribasso del secondo e terzo trimestre di quest’anno si mantiene piuttosto stabile tanto che il valore di un’azione, dopo aver sfiorato i 200$ alla fine del 2007, si attesta intorno ai 166$.

Ma non è sempre stato rose e fiori, anzi. A metà degli anni ’90 infatti, Apple ha corso il serio rischio di un tracollo: l’incapacità di saper anticipare i tempi e cogliere le nuove opportunità che stavano per cambiare il mercato (in una parola, Internet) hanno costretto la dirigenza a richiamare Steve Jobs in fretta e furia.

Prima del ritorno del figliol prodigo, c’è spazio per un folle progetto: il Pippin.

Il nome non è esattamente dei più azzeccati, ma era un progetto nato con mille ambizioni.

Cominciamo dal contesto. Siamo nella quinta generazione di cui abbiamo accennato qualche prodotto la scorsa settimana con il Sega Neptune.

Apple ha in mente di portare nei salotti di tutto il mondo una nuova piattaforma, definita allo stesso tempo “Internet Console” (perché disponeva di un modem a 14.4K) e “Stazione Multimediale” (essendo provvista di un lettore CD-ROM e di svariate uscite audio-video). Ma non ha intenzione di conquistare il favore del pubblico con il suo nome, concedendolo piuttosto in licenza a terzi, una politica molto apprezzata in quegli anni, basti ricordare l’esempio dei Mac-cloni.

La Bandai, nome storico del mercato nipponico nel settore dei giocattoli, già famoso publisher di videogiochi (dove si è fatta notare per aver convertito serie animate quali MazingaZ e DragonBalI in titoli videoludici) decide di cogliere la palla al balzo e produrre in casa una propria console, che avrebbe dovuto fare da fulcro dell’intero comparto di merchandising.

Quali furono le cause del fallimento dunque? Principalmente tecniche.

La CPU, un RISC PowerPC 603 a 66Mhz, comparato con le altre piattaforme concorrenti (Sony Playstation in primis) non appariva così debole, il problema era che doveva consentire l’esecuzione di MacOS nel cui ambiente giravano a loro volta i giochi: un piccolo computer quindi, ma che non soddisfava i requisiti computazionali né di una console né di un computer stesso.

Il paradosso veniva rafforzato dall’obbligo di dover inizializzare la macchina inserendo, dopo l’accensione, un disco di boot per far sì che il sistema operativo partisse (c’era anche la possibilità di farlo tramite un dispositivo SCSI, che però certo non era comune tra l’utenza consumer).
Il parco giochi era sostanzialmente il medesimo dei computer Apple, quindi decisamente scarso.

E il servizio PSINet (anche se non il primo in assoluto, perché i giapponesi disponevano di un alter-ego, tramite modem 28.8, già con il MegaDrive!) che doveva consentire l’utilizzo di servizi online si dimostrò assolutamente acerbo e inadeguato al boom che Internet nel 1995, l’anno di lancio del Pippin, stava vivendo.

PCWorld non a caso l’ha eletto tra i 25 prodotti peggiori hi-tech nella storia.

Qualche idea buona tutto sommato c’era, la stazione multimediale, la possibilità di giocare con un joypad wireless, ma la maggiorparte delle scelte, anche commerciali (come il folle prezzo di lancio di 599$), ne decretarono la fine prematura, dopo meno di due anni dalla presentazione e neanche 50mila pezzi venduti, facendola però diventare un pezzo piuttosto ambito per i collezionisti di retrogaming.

D’altra parte non tutte le ciambelle riescono col buco e non tutte le mele cadono vicine al proprio albero.

I nostalgici possono sfogliare il vecchio sito promozionale qui.

[image courtesy of Wikipedia]

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