Apple II: un’altra Apple era possibile?

Apple IIIn molte puntate di questa rubrica abbiamo insistito sui punti di snodo della storia del Personal Computer: la reazione di IBM alla crescita di Intel grazie al suo PC, la creazione della prima ISA, l’acquisizione di NeXT da parte di una Apple sull’orlo del fallimento, la triste epopea del grande Gary Kildall etc.

Oggi ci occuperemo di un computer che rappresenta una colonna portante della storia Apple, ma che tuttavia porta in sé una filosofia e dei valori diametralmente opposti a quelli che oggi siamo abituati ad attribuire ad Apple: l’Apple II. Un futuro possibile per Apple, cancellato dal sopravvento del Mac.

Se il Macintosh è figlio della visione e della sensibilità estetica di Steve Jobs, Apple II è frutto dell’anima hacker di Steve Wozniak, autentico genio della storia informatica. Il fatto che questi due computer portino così fortemente impressa la personalità dei rispettivi ispiratori, che ciascuno sia il computer che il suo creatore avrebbe voluto avere sulla scrivania e non un prodotto derivato da una sterile analisi di marketing, aggiunge grande spessore al confronto.

La dialettica Apple II/Mac rappresenta infatti un tema di straordinario impatto nella storia della Apple e del PC in generale; riflette inoltre due scuole di pensiero assolutamente opposte, che ancora oggi animano i più accesi scontri fra appassionati d’informatica.

Parlo di Apple II e non del primo, storico modello, o del III, perché il II, oltre ad essere, al pari del precedente e successivo modello, frutto della visione di Wozniak, rappresenta più di ogni altro sistema pre-Macintosh, un fenomeno di massa, una pietra miliare della rivoluzione PC, oltre che un enorme successo di vendita.

Per comprendere la portata di questo scontro culturale, non c’è miglior modo che partire da un’analisi delle due piattaforme. Non prima di essersi messi comodi, aver acceso lo stereo e magari aver messo su un po’ di buona musica prog.

L’Apple II rappresenta il sogno di ogni hacker: un computer documentato in ogni sua parte – sviluppato peraltro in un costante confronto con il leggendario Homebrew Computer Club – oltre che progettato da un hacker per soddisfare i suoi requisiti funzionali e la sua perversa concezione estetica del design di circuiti elettronici.

Già, perché Woz amava vantarsi presso i suoi amici e colleghi, di aver mantenuto le stesse funzionalità del primo Apple, e di averle anzi estese, usando un numero drasticamente inferiore di chip.

Per comprendere meglio lo spirito collaborativo e aperto alla base di questo capolavoro tecnologico, ricordiamo che nella ROM di Apple II viene incluso un disassembler, che consente di visualizzare il linguaggio macchina di ogni programma eseguito!

Woz e JobsApple II è un computer spartano ma estremamente potente e funzionale per l’epoca, basato sul celebre 6502 di MOS – solo perché l’8080 costava più di dieci volte tanto, immaginiamo cosa sarebbe potuto succedere se Intel avesse avuto prezzi popolari – e costruito con una filosofia di design hardware parallela a ciò che anni dopo, in ambito software, sarebbe stato l’open source.

Un sistema estremamente espandibile, per il quale sono state sviluppate migliaia di periferiche e attorno cui si è cresciuto negli anni un mercato hardware e software di dimensioni colossali.

Già dalla pressione di Jobs per includere in Apple II solo due slot di espansione – uno per il modem, uno per la stampante – contro gli 8 voluti da Woz, poi rimasti nella versione finale, abbiamo un primo indizio della dialettica che covava nella Apple dei primi giorni.

Il Macintosh nasce in effetti da un’ispirazione completamente diversa: se l’Apple II è un sistema per smanettoni, simile nell’approccio all’utente a molti altri computer contemporanei, il Mac nasce con l’idea di veicolare una nuova concezione di computer: un oggetto intuitivo nell’uso grazie ad un’interfaccia completamente grafica, orientato non a mettere un hacker nella condizione di poter sperimentare la sua creatività sul codice, ma a mettere a disposizione di qualunque utente, indipendentemente dalla sua alfabetizzazione informatica, strumenti idonei a potenziare la sua produttività e creatività.

In questo senso il Mac è da subito un computer “for the rest of us”, dove tutti gli altri sono gli smanettoni, gli hacker, gli esperti. Un sistema che, a costo di sembrare banale al gotha degli hobbisti, mira ad abbassare la soglia di accesso alle funzionalità offerte dal computer.

D’altro canto il Mac è anche la piattaforma chiusa e poco espandibile per eccellenza, quella in cui è stato meglio sperimentato il concetto di integrazione verticale hardware/software; al punto che oggi la stessa Apple – e la sua intera linea di prodotti lo testimonia – è sinonimo di questa chiusura.

Difficile dunque trovare nella storia dell’informatica, un computer che più dell’Apple II rappresenti l’antitesi del Mac. Difficile d’altronde non ipotizzare che il Macintosh nasca proprio dal superamento dei presupposti filosofici dell’Apple II, un superamento anche conflittuale – è storica la rivalità esistente negli anni ’80 in Apple, fra il team che seguiva lo sviluppo del Mac, capeggiato da Jobs, e quello degli “sfigati” che si occupavano dell’evoluzione di Apple II.

A quasi trent’anni di distanza, è facile capire che l’informatica ha preso la strada indicata dal Mac piuttosto che quella seguita da Apple II, e non avrebbe forse potuto essere diversamente, data la crescita del fenomeno PC ben oltre i ristretti confini del mondo degli hobbisti, l’ingresso nel settore di enormi interessi economici e il generale spostamento del valore aggiunto dall’hardware, divenuto “commodity”, al software e i servizi.

Rimane la curiosità di sapere cosa discenderebbe oggi dall’Apple II, se l’architettura avesse continuato ad evolversi per un altro ventennio, come ha fatto il Mac. E poi cosa sarebbe successo se nel 1984, invece del Mac, Apple avesse presentato un Apple IV aggiornato nell’hardware (magari con un bel 68000) e dotato di interfaccia grafica?

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