Che cosa vogliono dire le nostre parole?

Dopo il post sul pensiero e sulla parola , ora dobbiamo arrivare al sodo: è ora di parlare di significato. Abbiamo parlato di come il linguaggio si sia sviluppato nel corso della storia in modo differente in diverse società. Abbiamo però concluso che la ragione per cui si è sviluppato in questo modo è che le suddette società avevano bisogno esattamente di quelle parole e frasi per esprimere quello che gli serviva.

Ciò vuol dire che il linguaggio si è evoluto attorno al suo significato. L’effetto principale del significato di una frase è la reazione delle persone che ci circondano. Se io sono in una stanza e dico “Può qualcuno, per favore, chiudere la porta?” vedrò che dopo un certo tempo una delle persone presenti nella stanza interromperà la sua attività, si incamminerà verso la porta, e eseguirà una serie di gesti finché la porta non sarà chiusa.

La mia frase, la sequenza di suoni che ho emesso dalla mia bocca hanno così un effetto fisico, reale. In un certo senso è come se le mie stesse parole abbiano aperto la porta, servendosi della persona in questione. E perché proprio quella persona, e non un’altra, si è mossa per aprire la porta? Le mie parole sono state udite da tutti e hanno stimolato la parte del cervello chiamata “Area di Broca” di tutte le persone presenti. Solo in una, però, l’effetto è stato abbastanza forte da suscitare una reazione fisica.

L’area di Broca è la parte del cervello, indicata nella figura a inizio post, incaricata di gestire il linguaggio. È stata scoperta dal neurologo Paul Pierre Broc, osservando che i pazienti che avevano subito un trauma in quella zona del cervello perdono l’uso della parola. Per questo inizialmente si pensava che quella zona fosse responsabile solo dello sviluppo del linguaggio nella nostra mente.

Si è invece presto osservato che l’area di Broca si attiva anche nella fase della comprensione del linguaggio. E ciò che è più sorprendente è che non si tratta solo del linguaggio verbale, ma anche del linguaggio gestuale, come per esempio le ombre cinesi. Questa osservazione è di grande importanza perché dimostra che il nostro linguaggio si è evoluto a partire dal linguaggio dei primati, fatto di gesti e movimenti. L’evoluzione del linguaggio ha fatto si che si possano traferire informazioni sempre più precise, con sfumature che trasmettono urgenza, passione, noia, rabbia e quant’altro nella maniera più efficiente possibile.

Ho cominciato a pensare a questo concetto leggendo l’intervista al CEO di Google pubblicata da TechCrunch. Eric Schmidt sostiene di voler passare “dalla parola al significato” nella scienza della ricerca su internet. Scherza addirittura sul fatto di inserire degli impianti nelle teste degli utenti per capire esattamente di cosa hanno bisogno. Da questo punto di vista credo che Schmidt stia sbagliando approccio: non deve entrare nel nostro cervello, deve dare un cervello a Google. In particolare deve dotarlo dell’area di Broca, che gli permetterebbe di capire cosa intendiamo.

Ma come potrebbe capire Google cosa intendiamo, come ci sentiamo, che cosa vogliamo veramente, attraverso poche parole?

In alcune note di una lezione dell’università di Stanford, R.E. Jennings , spiega l’importanza dei connettori semantici nel linguaggio. Parole come “e”, “infatti”, “però”, “perché” ecc. ecc. sono di estrema importanza nel convogliare un significato preciso alla propria frase. Non a caso, posso testimoniare per esperienza personale, che imparare le preposizioni (di, a , da in, con, su, per, tra, fra) in una lingua straniera è una delle cose più difficili. Vengono addirittura utilizzare per definire una persona madrelingua: solo con una perfetta dimestichezza della lingua si riescono a utilizzare nel modo corretto.

Questo potrebbe senz’altro essere un primo passo da parte di Google: imparare a interpretare i connettori delle frasi. Attraverso questo sistema passerebbe per forza di cose dall’interpretazione della parola all’interpretazione del significato. Non oso nemmeno immaginare quanto può essere complicato per un programmatore donare questa capacità di pensiero a un software, ma sarebbe sicuramente un passo da gigante nello sviluppo dell’intelligenza artificiale.

Ma non deve essere per forza l’ultimo. Jennings spiega anche come il linguaggio sia fondamentalmente l’effetto dell’unione di un serie di individui che svolgono delle attività fisiche. In pratica, una società. La definizione stessa di società è un’insieme di individui che comunicano tra di loro, suddividendosi ruoli, effettuando azioni e sviluppando nuove infrastrutture. Tutto questo è possibile quando questi individui sono in grado di stimolare l’uno con l’altro zone specifiche del cervello delle altre persone, causando delle reazioni reali.

Questo è molto importante. Mentre ero all’università mi ricordo di aver partecipato ad un esperimento di scienze cognitive portato avanti dagli studenti della Sissa, a Trieste. Facevo da cavia per un test che stavano portando avanti: il mio ruolo era ascoltare un lungo discorso fatto in una lingua fittizia, non esistente, ma con delle regole grammaticali precise e consistenti. In seguito dovevo rispondere a delle domande sulla comprensione del testo ascoltato. I risultati del test erano riservati, per cui non so quanto abbia capito, però sono abbastanza sicura che il mio cervello era attivo in quel momento.

Cercavo di sforzarmi di trovare un pattern familiare nel corso della registrazione, di capirci qualcosa insomma. Lo stimolo al mio cervello, però, non ha portato a nessuna reazione fisica, reale, della mia persona. Semplicemente perché non ho capito niente di quel testo, per cui non so se mi è stato chiesto di aprire la porta, di saltare, di rispondere o di iniziare una rivoluzione.

Sono rimasta li seduta e ho fatto quello che mi veniva detto di fare in una lingua più nota. Affinché una lingua sia efficace, quindi, è necessario che l’altra persona abbia una reazione, abbia capito cosa gli viene detto. Ecco quindi il passo successivo che potrebbero fare gli scienziati di Google. Farlo reagire al significato della lingua, a quello che gli stiamo dicendo.

Provate a pensare cosa vorrebbe dire se Google riuscisse a capire il significato delle vostre ricerche. Fondamentalmente vorrebbe dire che potrete comunicare con una macchina, che una macchina potrebbe capire il vostro pensiero e magari anche i vostri sentimenti. Se ricercassimo “come costruire una bomba atomica” Google potrebbe risponderci “Ma perché vuoi costruire una bomba atomica, lascia perdere, dedicati alla pace nel mondo”. Potremmo avere intere discussioni con Google, perché, tanto, capisce cosa stiamo dicendo!

Forse con queste ultime frasi sto tirando troppo la corda, però è impressionante vedere come pochi concetti, poche modifiche nell’interpretazione del linguaggio da parte di un software possano veramente donargli l’intelligenza, possano renderlo parte della nostra società.

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