In un silenzio quasi imbarazzante da parte di molta dell’editoria IT targata USA, la IPO di Facebook ha fatto flop. La più grande IPO della storia del Nasdaq, incensata e glorificata, gossippata, analizzata da ogni possibile punto di vista, contornata da analisi psico-sociologiche sui suoi protagonisti, accompagnata dal rullo dei soliti tambourine men startuppari, ha chiuso il secondo giorno di contrattazioni oltre la soglia del -10% rispetto al prezzo di collocamento, andando anche peggio il giorno successivo.
Non desidero addentrarmi in analisi finanziarie né assumermi il ruolo – peraltro immeritato – di quello che dice “io l’avevo detto”: la mia critica a Facebook è sempre stata rivolta all’abbattimento della privacy, che è poi l’ossessione di Zuckerberg. Proprio per questo ci vedo da tempo un potenziale pubblicitario estremamente interessante.
Essendo piuttosto attento alla maniera in cui la realtà viene raccontata dai mass media, particolarmente in momenti critici e in rapida evoluzione, vorrei condividere con voi un esempio che per me è già diventato un classico. Proviene da Business Insider, testata nota per l’uso abbondante e diffuso di toni sopra le righe e titoli strillati. Siamo (nel final update) alla fine di venerdì 18, la prima giornata di trattative; l’atteso boom non c’è stato, il titolo è tornato al prezzo di collocamento; il senso di sorpresa è forte ma…
Le banche che hanno sottoscritto la quotazione di Facebook, hanno fissato un prezzo di $ 38, dunque non c’è stato alcun “boom”. È una cattiva notizia per chi aveva intenzione di acquistare le azioni e rivenderle al volo per fare rapidamente profitto. È [tuttavia] una grande notizia per Facebook, perché significa che le banche hanno stabilito il prezzo in maniera perfetta. In effetti potrebbero aver fatto meglio che prezzarla perfettamente. Potrebbero aver reso a Facebook un grande servizio.
Potete leggere il resto su questa pagina di Business Insider.
Fare il mestiere del reporter di un evento così importante non è facile. Ancor meno lo è sviluppare analisi sensate “in tempo reale”. Inoltre il senno di poi sul mercato vale poco, molto meno delle azioni di FB. Ma azzeccare esattamente il contrario di quello che entro pochi minuti si proverà vero, escludendo la malafede, è un’impresa unica e degna di menzione. Analizziamo il paragrafo pezzo per pezzo:
Le banche che hanno sottoscritto la quotazione di Facebook, hanno fissato un prezzo di $ 38, dunque non c’è stato alcun “boom”.
Formalmente nulla da obiettare. Ma facile che proprio quel prezzo abbia garantito l’assenza di un boom, e il successivo “sboom”.
È una cattiva notizia per chi aveva intenzione di acquistare le azioni e rivenderle al volo per fare rapidamente profitto.
Infatti ad oggi gli unici che hanno fatto qualche profitto sul titolo FB nel mercato pubblico, sono quelli che hanno comprato a $38 e hanno rivenduto poche ore dopo a meno di $42, o coloro che hanno raschiato margini ancora inferiori in tempi ancor più brevi nelle successive fluttuazioni. Chi ha tenuto ha perso, e non poco.
È [tuttavia] una grande notizia per Facebook, perché significa che le banche hanno stabilito il prezzo in maniera perfetta.
In effetti potrebbero aver fatto meglio che prezzarla perfettamente. Potrebbero aver reso a Facebook un grande servizio.
Il sentimento comune è in effetti tutto il contrario: Morgan Stanley avrebbe alzato troppo il prezzo, ben oltre le capacità di Facebook di produrre utili, portandolo in un terreno di entusiasmo del tutto ingiustificato. Un analista Internet della stessa Morgan Stanley pare poi abbia tagliato le previsioni durante il roadshow della IPO, ovverosia proprio il rush finale di quella corsa la cui destinazione è la fiducia degli investitori prima dell’inizio delle trattative. Dunque Morgan Stanley appare come il primo responsabile della situazione che si è venuta a determinare.
Ad onor del vero non è stata solo Business Insider a cadere nel tranello di questa banale spiegazione riparatoria. Come riporta PandoDaily, il “prezzo perfetto” come spiegazione della mancanza di boom, era uno dei buzz più frequenti immediatamente dopo l’inizio delle trattative. Ma Jay Yarow, l’autore del pezzo citato, è andato oltre, ci ha messo dell’ottimismo totalmente ingiustificato, che i minuti immediatamente successivi hanno non solo contraddetto, ma del tutto invertito.
Cosa concluderne? Ho in mente, in modo del tutto astratto e indimostrato, due posizioni molto divergenti: da un lato l’ingenua sciocchezza da Failblog, dall’altro qualcosa di peggio. Qualcosa che ha a che vedere con il tentativo di influenzare la componente emotiva delle trattative post-IPO.
Se non conclusioni definitive, spero tuttavia di aver gettato il seme di un sano scetticismo rispetto alle analisi a caldo su questioni IPO e simili. Forse il “silenzio imbarazzante” delle testate tecnologiche che seguo, di cui parlavo nel primo paragrafo, imbarazzante non è, ed anzi, è segno che faccio bene a continuare a seguirle.