Mentre Facebook percorre gli ultimi passi in direzione una IPO miliardaria, con prospettive e numeri da far tremare le vene ai polsi della concorrenza, Google, che è poi la concorrenza, si muove nella sfera social con risultati ambivalenti. Se Google+ rappresenta di gran lunga il più convincente tentativo di Google in ambito social, i suoi numeri sono ancora molto lontani da quelli di Facebook.
Inoltre l’integrazione di G+ nei risultati della ricerca, fattore chiave per la crescita del social di Google, mette in discussione il primato della rilevanza fra i criteri che guidano la formazione di SERP su Google e rappresenta secondo Searchengineland.com, un elemento di concorrenza sleale nei confronti dei più famosi ed affermati social network Facebook e Twitter.
È davvero il caso di parlare di concorrenza sleale? La quota di mercato che Google detiene da anni ne fa in effetti un cardine di Internet, una rete che senza Google forse sarebbe troppo grande per essere esplorata. Il ruolo “istituzionale” assunto da Google, risultato della qualità dei suoi algoritmi, mal si concilia con l’idea di piegare quegli stessi algoritmi ad uno scopo diverso dalla pura e semplice rilevanza.
Eppure, qualcuno dirà, è logico che Google, un’azienda a fini di lucro (malgrado i nobili mission statement) sfrutti tutte le leve in suo possesso per incrementare la sua presenza in un settore trainante della web economy, nel quale tuttavia gioca ancora un ruolo minore.
La posta in gioco, manco a dirlo, sono i dati degli utenti. Dati che in prima istanza consentono di vendere pubblicità più rilevante e poi di evolvere il concetto stesso di pubblicità verso qualcosa di molto più integrato nel flusso quotidiano di azioni e interazioni dell’utente.
Davanti al tema della raccolta di dati, Facebook e Google seguono tuttavia percorsi completamente diversi. Google, che nasce attorno alla lodevole missione di organizzare e rendere disponibile la conoscenza, possiede sì tonnellate di dati su ogni utente, ma deve desumerli da una molteplicità di servizi e poi metterli in contesto; per dirla con una battuta, deve lavorare come un investigatore sulle tracce di un indiziato.
Viceeversa Facebook, nel cui DNA è presente un rifiuto della privacy fin dal primo giorno, riceve quotidianamente da 500 milioni di persone, informazioni puntuali e circostanziate circa preferenze, opinioni, relazioni, stati d’animo. Mentre una massa enorme di informazioni personali fluisce spontaneamente nei server di Facebook, per Google è tutto un lavoro di incrocio dei dati ottenuti dall’uso di n piattaforme. Piattaforme che (fino a G+) non nascono, come invece Facebook, con lo scopo implicito di raccogliere dati sull’utente: hanno dunque altri TOS e generano diverse aspettative negli utenti, a partire dalle finalità di trattamento dei dati personali.
Il percorso che Google sta seguendo in questi giorni – la creazione di un TOS unificato – va esattamente nella direzione di far comunicare fra loro le piattaforme, di unire i puntini. La mia mail, il mio calendario di appuntamenti, preferenze, opinioni, relazioni e sentimenti che esprimo su G+, le ricerche che eseguo quotidianamente, senza nemmeno parlare di un terminale Android in tasca, diventano gli strumenti che Google ha imparato ad usare in modo sinergico per, in fondo, farsi meglio gli affari miei. Che poi è null’altro che la concretizzazione della visione di Schmidt come spiegata già due anni fa.
Concludendo, chi mi legge sa contro l’approccio di Facebook alla privacy ho sempre sparato ad alzo zero. Davanti agli ultimi sviluppi, mi trovo tuttavia quasi a preferire la visione di Zuckerberg (secondo cui la privacy è una cosa del passato). Una posizione che suscita discussioni, stupore, indignazione, ma ha il pregio di essere esplicita. Molto più di quanto lo sia quella di Google, servizio che la massa degli utenti ritiene “embeddato” in Internet ma che, al di là di proclami tipo “Privacy matters”, oggi più che mai, condivide al 100% le finalità di Facebook in merito alla profilazione dei suoi utenti.
Un classico ormai ma sempre bella!
http://cdn1.diggstatic.com/story/facebook_and_you_pic/o.png
“secondo cui la privacy è una cosa del passato”!!!
Forse è arrivato il momento di dare un nuovo significato a privacy, visto che, come utenti, rimaniamo pur sempre i prodotti che questi siti vendono… :D
Io non credo sia vero che la privacy non esiste più, ma sicuramente il concetto di riservatezza in un mondo completamente basato sulla comunicazione non può che essere diverso. Da molto tempo prima di Google e Facebook, le compagnie telefoniche possiedono le registrazioni di tutte le chiamate degli utenti, una quantità di informazioni enorme e spesso molto più personali di quelle che si scrivono su Facebook, ma nessuno si pone il problema più di tanto, perché esistono delle regolamentazioni ben precise su come possono essere registrate queste informazioni, che devono per esempio essere disponibili su richiesta dell’autorità giudiziaria, ma non possono essere vendute a privati. Anche lo stato possiede (in teoria!) informazioni sul reddito di tutti i cittadini, ma nessuno la vede come una violazione della privacy.
In generale, a me non preoccupa affatto che un’azienda possieda ed elabori informazioni su di me assieme ad altri milioni di persone, perché in mezzo ad una tale massa non ci può essere una ricerca del singolo da parte di una persona interessata, ma è semplicemente una macchina a “conoscermi” per mandarmi pubblicità mirata o cose simili, a me sembra quasi un servizio piuttosto che un problema, perché mi fa piacere vedere pubblicizzate le cose che mi interessano piuttosto che oggetti a caso. Il vero problema sarebbe se Google vendesse i miei dati a qualcuno che mi conosce ed è veramente interessato alla mia persona come ad esempio l’azienda per cui lavoro, il partito a cui sono iscritto, il mio vicino di casa eccetera, ma queste pratiche sono effettivamente illegali.
@Leonardo Ascorti:
O le compagnie di assicurazione, tanto per aggiungerne un’altra all’elenco :D
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perché in mezzo ad una tale massa non ci può essere una ricerca del singolo da parte di una persona interessata, ma è semplicemente una macchina a “conoscermi”
[/quote]
select * from all_data_of_users where a_name = ‘Leonardo Ascorti’
;-)
La recente modifica alle condizioni di utilizzo dei suoi servizi mi sta convincendo ad abbandonare Google.
A breve penso di trasferire le mie mail su qualche altro account (suggerimenti in tal senso sono i benvenuti), dismettendo anche GTalk, Docs, e + (che comunque non ho praticamente usato).
Meglio Facebook, come dice Alessio, che almeno è esplicito e sai cosa ti aspetti e come ti devi muovere.
Io invece preferisco Google a Facebook perchè in cambio dei miei dati mi offre dei servizi utili e comodi e non un inutile spazio in cui raccontare i fatti mie al resto del mondo…
Tra l’altro dalle abitudini più invasive di entrambi ci si può difendere facilmente… ad esempio, secondo adblockplus, QUESTA pagina richiama con i suoi pulsanti mi piace, twitter e +1 fa caricare script direttamente dai server di facebook twitter e google+ oltre che da google-analytics per le statistiche sulle visite. Ed è così per la maggior parte dei siti che non siano amatoriali.
Ah questi dati sulla vostra navigazione vengono raccolti sia voi siate iscritti a facebook google twitter sia non lo siate….
@Alessandro ho lavorato per una grande multinazionale telefonica per un paio d’anni, la query che esponi in tutta la sua disarmante semplicità é corretta (i dati sono spalmati su più tabelle e db ma basta puntuare sulla tabella di raccordo), ma con una condizione del genere la query impiegherà ore perchè nome e cognome sono due campi che non sono indicizzati, e il db ti sega in automatico la query se rimane appesa troppo tempo.
Lo stalker perfetto si fa furbo e cerca in base al codice fiscale… :D
La cosa tragica é che la multinazionale di telefonia per cui lavoravo fa un uso massiccio di consulenti, dove ci sono consulenti a progetto e così via si crea una situazione da porto di mare, che si traduce in utenze condivise, password di amministrazione date in giro e inalterate da anni ecc…
Personalmente ho più paura dei dati in possesso in mano ai gestori di carte di credito, hanno la perfetta mappatura utente/preferenze. Non hanno nemmeno bisogno che si inseriscano i dati come su facebook, al quale non sono iscritto peraltro.
La vera paura di Google comunque è che sta prendendo sempre più piede il search dall’interno dei vari socialcosi, siano essi Facebook, Twitter o chissà cos’altro che non conosco, e visto che la maggior parte dei soldini Google li fa dall’accoppiata search/advertising direi che non ci vuole un genio per capire a cosa stanno rinunciando se continuano i ritmi attuali.
Tra l’altro, Google+ ha già perso in partenza, conosco più di una persona che non ha la minima voglia di iscriversi ad un altro socialcoso, “Ho già facebook da gestire, figurati se arrivato a casa devo passare altro tempo per aggiornare un secondo profilo”. Già, è proprio una fatica stare dietro al proprio alter ego virtuale, ma bisogna esserci, sia mai.
ancora con ‘sta cosa della “rilevanza”? sono ANNI che la rilevanza la decidono gli ingegneri affinando l’algoritmo di Google, e han sempre fatto un ottimo lavoro, non puoi negarlo. Adesso han deciso che, nei tempi in cui tutto è social, è RILEVANTE ciò che i tuoi amici ritengono lo sia, oltre che quello che dice l’algoritmo.
A me sembra addirittura PIU’ democratico di prima, altro che lamentele di Twitter e compagnia cantante. D’altronde c’è tutto un mondo fuori, no? Blekko DuckDuckGo, Volunia… ;-P
Io non preferisco nessuno dei due. Google mi ha perso come utente e continuo a stare più alla larga possibile da Facebook. Anche Yahoo aveva imboccato quella strada (vedi Pulse). I social network e affini non mi dispiacerebbero, ma non alle condizioni che propongono costoro, specialmente quando hanno avuto impostazioni predefinite molto “aperte”.
E sarebbe ancora niente se non ci fossero malsane idee di costringere a utilizzare social network anche chi ne farebbe ben volentieri a meno… ho sentito ieri di sfuggita un’idea del Regno Unito di rendere disponibili servizi di pubblica utilità (richiesta di certificati all’amministrazione, comunicazioni con enti pubblici ecc..) attraverso queste diaboliche piattaforme… per fortuna ho potuto vivere i bei tempi in cui la rete era un libero territorio di conquista! Cosa ci attende nel futuro?
Ciao
@ Tambu
Nulla da obiettare, se solo rispettassero gli ordini di grandezza invece di mettere il proprio *minoritario* social davanti a ben più titolati predecessori.
Cito l’articolo di Searchengineland.com linkato:
La rilevanza è sempre stata decisa da algoritmi, che sono sempre stati sviluppati da esseri umani. A mia memoria tuttavia questi algoritmi solo ultimamente hanno iniziato a contemplare “favoritismi” rispetto alla property di Google, un fatto che mi pare eccepisca al criterio di rilevanza “disinteressata” che appartiene alle radici ideologiche di Google.
@Tambu:
Come ci ricorda Andrew Keen, in 1984 di George Orwell, il Grande Fratello insiste affinché due più due faccia cinque, trasformando un’affermazione assolutamente scorretta nella verità ufficiale e autorizzata dallo Stato (Keen, 2009).Oggi, tra i numerosi Grandi Fratelli che ci osservano e di cui nulla sappiamo, ce n’è uno con cui chiacchieriamo ogni giorno: è nostro amico [1], nostro confidente e sempre pronto ad aiutarci.Ovviamente, stiamo parlando di nuovo del motore di ricerca Google.Keen ci introduce in modo più serio a quello che si è cercato di far passare per un aspetto spassoso; infatti Keen afferma che “ogni giorno, attraverso decine di milioni di domande, riversiamo nell’onnipotente motore di ricerca i nostri più intimi segreti. Google conosce le nostre abitudini, i nostri interessi e i nostri desideri meglio dei nostri amici, dei nostri cari e del nostro psicanalista messi insieme. Ma a differenza di quello di 1984, il nostro Grande Fratello esiste per davvero. Dobbiamo fidarci del fatto che non divulgherà i nostri segreti, ma la nostra fiducia […] è già stata più volte tradita” (Keen 2009, pp. 42-43). E mentre riversiamo noi stessi nel motore di ricerca, quest’ultimo in cambio di numerosi servizi «gratuiti», guadagna miliardi di dollari grazie alla pubblicità che le nostre ricerche hanno contribuito a creare. Alla fine quanto stiamo pagando davvero quei servizi gratuiti?
Non si può rispondere al momento a una domanda del genere, ma si può portare un esempio paradigmatico del nostro affidarci in modo cieco a uno sconosciuto e anonimo motore di ricerca, che a onor del vero nel caso di seguito considerato non è Google ma AOL [2].
“Tutto ebbe inizio con un dilemma morale. «È giusto fare sesso al primo incontro con un amante virtuale?» domandò al motore di ricerca il 17 aprile 2006. Aveva un problema: era sposata ma innamorata di un altro uomo, come confessò al motore di ricerca il 20 aprile. Una settimana dopo, si decise a incontrare il suo amante virtuale” (Keen 2009, p. 203).
Tra il primo marzo e il 31 maggio del 2006, questa signora statunitense aveva esposto i suoi timori, le sue paure e le sue confidenze al motore di ricerca AOL e come sottolinea Keen “aveva aperto il suo cuore alla tecnologia, trasformando il motore di ricerca in una finestra sulla sua anima. […] I pensieri e i sentimenti riversati nel motore di ricerca AOL erano quelli di una donna che si sforzava di mantenersi lucida in un momento di disperazione” (Keen 2009, p. 204).Nel periodo considerato la signora aveva digitato quasi 3000 domande di varia natura che forse non avrebbe osato rivolgere a nessuno dei suoi più intimi conoscenti: sul proprio corpo, sulla sessualità maschile, sulla dipendenza da Internet e, addirittura, sulla giustizia divina (Keen, 2009). “Era una specie di Madame Bovary digitale, tranne che per un piccolo particolare: quanto aveva inserito nel motore di ricerca AOL non era stato scritto per essere pubblicato. Dietro le sue confessioni non c’era alcun Flaubert. Nessuno avrebbe dovuto leggerle. Si fidava ciecamente del motore di ricerca. Costretta a barcamenarsi fra il marito che russava, i figli invisibili, il fallito adulterio e lo sforzo per comprendere la parola di Dio, lo considerava il suo unico confidente, la sola certezza che non l’avrebbe mai abbandonata. Quanto si sbagliava!” (Keen 2009, p. 204)
Ciò che la signora aveva dato per scontato fu all’origine di un contrappasso dantesco: solo che non Dante, ma la Rete divenne il suo cantore. Tutto ciò che la signora aveva digitato sul motore di ricerca divenne di dominio pubblico. La signora non aveva un nome, ma aveva un numero 711391: l’ultima cosa che avrebbe potuto aspettarsi era che ella sarebbe stata la vittima di uno dei primi disguidi di una cultura della sorveglianza digitale nella quale può accadere che “le nostre paure più profonde e le nostre emozioni più intime vengano svelate al mondo intero senza che lo sappiamo o che qualcuno ci abbia chiesto il permesso” (Keen 2009, p. 205).
Per i curiosi l’identità e l’intimità della donna non avevano davvero più segreti: di lei si conoscevano i difetti, i complessi, la natura dei suoi dilemmi teologici, ecc. (Keen, 2009). La vicenda fu definita dalla rivista Slate in senso orwelliano: ma, forse, il Grande Fratello di Orwell era infinitamente più stupido di questo nuovo Grande Fratello tecnologico.L’inaugurazione di questa vicenda da 1984 è del 2006, precisamente del 6 agosto quando AOL si lasciò sfuggire i dati di ricerca di 658 mila persone, compresa la signora 711391 (Keen, 2009). Quella sera, i pensieri più inconfessabili degli utilizzatori di AOL furono alla mercé di chiunque: all’aborto a come uccidere la moglie, dalla bestialità alla pedofilia (Keen, 2009).Ciò che più dovrebbe lasciare perplessi della vicenda è che i ricercatori di AOL trasformarono quei dati in un giocattolo intellettuale di loro proprietà, dal momento che le ricerche che noi facciamo su Internet non sono nostre, ma appartengono ai proprietari del servizio che ne dispongono l’archiviazione, l’analisi e la conseguente trasformazione in profitto (Keen, 2009). La questione della proprietà legale delle parole inserite nei motori di ricerca resta oscura e non appena i dati furono immessi sulla rete la privacy di centinaia di migliaia di persone scomparve nel nulla e tutti ebbero la possibilità di esaminare questo enorme database di intenzioni private (Keen, 2009).“Fu un po’ come se la Chiesa cattolica avesse spedito in giro per il mondo confessioni di 658 mila fedeli. O se il KGB, la polizia segreta sovietica, avesse aperto i suoi file di sorveglianza per trasmetterli alla TV nazionale. Le informazioni contenute nei file di AOL sono una sorta di Memorie dal sottosuolo del XXI secolo, una raccolta di dati che svelano i nostri lati più vulnerabili, privati, inconfessabili, umani (Keen 2009, pp. 206-207).Oltre a questo caso di perdita di dati dei motori di ricerca, molto comuni sono i furti d’identità, la clonazione di carte di credito, l’appropriazione di dati finanziari e tutto ciò che riguarda i nostri dati sensibili online. La sicurezza di questi sistemi è stata violata numerose volte e non sono pochi i casi di utilizzazioni fraudolente di tali dati. Negli Stati Uniti dei 10 milioni di casi di furto d’identità all’anno stimati, ne viene scoperto soltanto uno su settecento (Keen, 2009).Fin qui si è detto dei casi in cui i nostri dati vengono rubati o immessi su Internet senza il nostro permesso: cosa dire invece della mole di informazioni che regaliamo gratuitamente di nostra spontanea volontà? Infatti, “nel mondo del Web 2.0, dove ogni singola ricerca è a disposizione delle grandi società e delle agenzie governative, il diritto alla privacy sta diventando un concetto antiquato. Nel mondo reale possiamo stracciare estratti conto e bollette del telefono, eliminare lettere e appunti privati, distruggere foto imbarazzanti e tenere sotto chiave i nostri dati medici. Ma una volta immessi su AOL o su Google, i nostri documenti privati non scompariranno più dalla Rete. Google, Yahoo! e AOL s’impadroniscono dei dati e tengono traccia delle nostre ricerche, dei prodotti che acquistiamo e dei siti sui quali navighiamo, il tutto senza alcuna responsabilità legale” (Keen 2009, p. 212).Il prezzo da pagare per tutti i servizi gratuiti della Rete è la svendita di noi stessi a fini di marketing, profilazione e tracciamento dei nostri gusti e delle nostre preferenze; tanto più è ampia la base dati sul nostro conto, tanto più efficace sarà la quantità di dati utilizzata dagli inserzionisti per creare pubblicità mirata sui gusti degli utenti. Tutto questo è possibile grazie all’inverosimile fiducia riposta dagli utilizzatori di tutti questi servizi nei servizi stessi e nella compagnia che li eroga.Lo strumento più utilizzato per tenere traccia di tutta la nostra attività online ha un nome innocuo, cookie [3]: si tratta di un file di testo di dimensioni minuscole che viene registrato sul nostro disco fisso non appena accediamo a un sito web. Andrew Keen ci fornisce un’ottima spiegazione del loro funzionamento: “Com’è possibile che Google e AOL riescano a impadronirsi di informazioni tanto dettagliate? Grazie ai piccoli pacchetti di dati nascosti nei programmi di navigazione che passano sotto l’innocuo nome di cookie, i quali stabiliscono un numero identificativo unico riferito al nostro hard disk permettendo ai siti web di registrare con precisione tutto ciò che facciamo online. Questi pacchetti di dati rappresentano un patto faustiano con quel diavolo che è la rete. Ogni volta che finiamo su una pagina web, si attiva un cookie che riferisce al sito chi lo sta visitando. I cookie trasformano le nostre abitudini in dati. Per gli inserzionisti e i responsabili del marketing sono vere e proprie miniere d’oro. Memorizzano i nostri siti preferiti e il numero delle nostre carte di credito, ricordano tutto ciò che abbiamo messo nei carrelli elettronici e prendono nota dei banner pubblicitari sui quali abbiamo cliccato. E sono ovunque (Keen 2009, p. 213).
Quel che appare paradossale è la natura del rapporto utente-sito web: l’utente, in buona fede, entra nel sito e fa ciò che deve senza curarsi che ogni sua azione sarà monitorata, mentre il sito web raccoglie e immagazzina tutti i dati del visitatore. Esistono modi per evitare lo spionaggio della nostra attività online ma sono fin troppo complicati per l’utente medio: d’altronde l’aspetto fondamentale di Internet è la sua interattività immediata (proprio perché non mediata), il suo velocizzare le nostre azioni, il suo renderci sempre tutto disponibile a portata di click. L’adozione di contromisure inficerebbe sulla nostra velocità e naturalezza online e, molto probabilmente, se la maggior parte degli utenti fosse in grado di adottare tali contromisure i servizi più cari alla stragrande maggioranza degli utenti diventerebbero a pagamento. Perché è raro che qualcuno si lasci andare alla beneficenza, anche su Internet: è questa l’essenza del rapporto faustiano tra utente e Rete che descrive Andrew Keen.Chi rinuncia ai biscottini rinuncia all’email gratuita, all’account Facebook, alla home page personalizzata di Google e, in generale, a tutti quei servizi in cui è necessario fornire i nostri dati.Dopo soli quattro giorni dalla messa online dei dati di AOL, Amazon presentò un brevetto con cui chiedeva l’autorizzazione per un sistema di archiviazione dei dati sensibili degli utenti così da poter appropriarsi delle esperienze di acquisto online dei propri utenti (Keen, 2009).
Chi è responsabile di tutto questo? In molti casi siamo proprio noi stessi come ci fa notare Keen quando afferma che “a sorvegliarci non sono soltanto gli aggregatori di dati, che agiscono dall’alto. Siamo noi stessi, con la nostra ossessione autoreferenziale, a contribuire dal basso all’epoca della sorveglianza.L’infatuazione del Web 2.0 per i contenuti user-generated è il sogno di ogni data miner, i software cacciatori di dati. Più informazioni diamo di noi nella nostra pagina di MySpace, nei video che carichiamo su YouTube, nei nostri blog o in quelli degli altri, più diventiamo vulnerabili di fronte ai ficcanaso, ai ricattatori, ai voyeur e ai pettegoli. La natura confessionale della cultura user-generated sta facendo esplodere a livello culturale una tendenza generalizzata a rivelare i propri gusti personali, sessuali e politici” (Keen 2009, p. 215).Non dovrebbe quindi sorprendere che la CIA e altri servizi segreti stiano investendo nelle tecnologie del Web 2.0 (Keen, 2009).
Questo è il prezzo più alto della democratizzazione della comunicazione online e rappresenta l’implosione del nostro diritto alla privacy (Keen, 2009). “In questo panottico digitale, gli insegnanti controllano gli allievi, gli amministratori universitari controllano gli studenti e ciascuno controlla i propri pari. In 1984, Orwell dipinge una società nella quale vige un sistema di controllo verticale dall’alto al basso e il Grande Fratello vede tutto, sa tutto, controlla i nostri movimenti, ascolta le nostre conversazioni e legge nelle nostre menti. Il Web 2.0 rappresenta la democratizzazione di quell’incubo; se nel mondo orwelliano esisteva un unico leader onnisciente, oggi tutti noi possiamo essere il Grande Fratello. È sufficiente avere una connessione a Internet” (Keen 2009, pp. 216-217).È chiaro quindi che dalle parole che inseriamo nei motori di ricerca alle nostre descrizioni sui siti sociali, la rivoluzione del Web 2.0 sta offuscando il confine tra ciò che è pubblico e ciò che è privato (Keen, 2009).Con l’estendersi del social networking sempre più persone offriranno liberamente e spontaneamente innumerevoli proiezioni di sé sulla Rete, proiezioni pubbliche e aperte a tutti (Antinucci, 2009). Possiamo immaginare un futuro non troppo lontano in cui software tecnologicamente sofisticati si sostituiranno agli psicologi della personalità o agli analisti di mercato per tracciare i profili psicologici e di marketing di sempre più persone (Antinucci, 2009).
Concludendo, si può dire di essere ritornati alla condizione del villaggio, della tribù o del piccolo paese in cui tutti i nostri comportamenti erano pubblici, dal momento che la scala ridotta permetteva a tutti di tenere sotto controllo tutti gli altri (Antinucci, 2009). Quello che la grande metropoli regalava in termini di privacy è destinato a scomparire pian piano. Basta uno smartphone collegato a Internet con il GPS [4] attivo affinché i nostri amici su Twitter o su Facebook sappiano in qualunque istante la nostra geolocalizzazione. Quest’ultima, guarda caso, è proprio la nuova frontiera del marketing.
Il libro in questione è Keen A., 2007, Dilettanti .com. Come la rivoluzione del Web 2.0 sta uccidendo la nostra cultura e distruggendo la nostra economia, De Agostini Editore, Novara, 2009.
[1] GIYF è l’acronimo di Google is your friend, in italiano Google è tuo amico: tale acronimo, molto in voga sulla Rete, sta a significare che prima di chiedere a qualcuno qualcosa è necessario che si chieda prima al motore di ricerca Google di aiutarci. Nelle ultime settimane è stato lanciato addirittura un sito http://lmgtfy.com/ Let me Google it for you, cioè te lo cerco io su Google, che riporta un link in cui è rappresentata una ricerca in cui colui che aveva chiesto aiuto verrà preso in giro in modo scherzoso non appena apparirà la scritta “Era così difficile?”, come dire la ricerca potevi farla anche da solo.
[2] Nel 2010 AOL e Google hanno stretto una partnership volta a consolidare le rispettive posizioni e oggi, usando AOL Search possiamo notare la dicitura Enhanced by Google, cioè ottimizzato da Google: insomma, di nuovo il cane che si morde la coda.
[3] In inglese significa biscotto.
[4] Global Positioning System, sistema di posizionamento globale mediante satellite.
@ Serena
Mettere semplicemente un link al sito???
http://tempospaziopoesia.blogspot.com/2012/02/il-villaggio-globale-del-grande.html
che io sappia è proprio Twitter che impedisce il crawl dei singoli tweet (mentre lo consente per le pagine dei profili). Ergo stai chiedendo a Google di includere Twitter nei risultati social disobbedendo a un ordine che ha dato Twitter stesso tramite il suo robots.txt, che Google rispetta.
Delle due l’una.
Sì, rimarrebbe fuori un certo Facebook… E poi non è che si parli di singoli tweet, basterebbe linkare i profili “pieni” come quelli FB e Twitter piuttosto che buttare dentro quelli G+ al di fuori di ogni criterio di rilevanza.
http://searchengineland.com/figz/wp-content/seloads/2012/01/facebook-Google-Search.jpg
P.A.P. (piccolo appunto pedante)
si dice “fa tremar le vene e i polsi”…
o almeno così scrive mr. D…
Decentralized Social Network
http://diasporaproject.org