di  -  giovedì 26 Gennaio 2012

Care lettrici e cari lettori, pubblichiamo oggi il secondo capitolo di un libro che ci sta molto a cuore. Il titolo in questione è LE ONORATE SOCIETÀ di Rosario Careri, edito da gruppo Albatros il filo, che racconta “L’Odissea dei lavoratori di Agile / Ex Eutelia”. Una storia che sintetizza la parabola – sarebbe il caso di definirla picchiata – dell’industria tecnologica italiana e che, a dispetto dei miseri e volgari esiti delle ultime settimane, ha origine proprio in quel piccolo miracolo industriale che fu la Olivetti nel secolo scorso. Seguirà fra qualche giorno un’intervista all’autore, a cui saremo felici di rivolgere anche domande emerse nei commenti. Buona lettura.

Capitolo 2: L’ERA OLIVETTI (LA PRIMA CARROZZA)

Tutto ha inizio quando l’ing. Carlo De Benedetti, agli inizi degli anni Novanta, in quanto attratto dal business delle telecomunicazioni, decide di mollare l’informatica, ossia la Olivetti.
La grande “Ing. C. Olivetti & C., S.p.A.”, azienda, italiana al 100%, orgoglio dell’informatica nazionale.
Ricordo che, giovane ingegnere elettronico, brillantemente laureato alla Università di Napoli, dopo aver maturato una buona esperienza presso aziende del calibro di Sperry Univac, Honeywell e General Electric, nel 1986 mi si presentò l’opportunità, poco più che trentenne, di essere assunto dalla Olivetti, con un incarico di prestigio, per un giovane dell’epoca.
Direttore di una delle sue filiali commerciali.
Un sogno che si realizzava, senza che dovessi ringraziare nessuno, a parte il Signore Dio e i miei genitori, i quali, con i loro grandi sacrifici, mi consentirono di poter esprimere le mie potenzialità!
Ero diventato un manager, potevo gestire un’impresa, tale era, a quei tempi, una filiale.
Un’impresa nell’impresa, con il suo conto economico, con il suo organico, con una propria autonomia gestionale.
L’azienda riconosceva i meriti e le capacità, mie e dei miei colleghi, e tutti ci sentivamo gratificati, protetti, orgogliosi di esserne parte integrante.
Essa ci faceva sentire il suo calore, la sua presenza, le sue carezze.
L’organizzazione era perfetta!
La risorsa umana, cioè io, i miei colleghi, decine di migliaia, nel mondo, era considerata il patrimonio aziendale più importante, che andava curato, coltivato, costantemente aggiornato.
Fonte di idee, elemento creativo, su cui l’azienda puntava per i suoi successi e al quale non poteva rinunciare.
Pensa, un patrimonio irrinunciabile!
E la risorsa umana, secondo i principi Olivettiani, doveva vivere degnamente, perché solo così poteva lavorare bene ed esprimere il meglio di se stessa.
Per noi tutti il lavoro era una gioia, ci sentivamo, come si era soliti dire, realizzati, sia come uomini e donne, sia come professionisti.
L’ottimismo era diffuso, si poteva immaginare il futuro, costruire sogni, convinti di potercela fare e di poter reggere, serenamente, alle avversità della vita.
Si pensava positivo.
Per la grande Olivetti ci saremmo fatti ammazzare!
La grande Olivetti, già!
La “Grande Utopia”, la fabbrica a misura d’uomo che è stata un elemento importante della recente storia italiana, che mi è tuttora dentro e che, se da un lato mi inorgoglisce, per la fortuna di averne fatto parte, di poter dire “io c’ero”, dall’altro mi rende profondamente triste, nel dover constatare che tutto è andato distrutto.
Costituita ad Ivrea, nel 1908, come “prima fabbrica nazionale di macchine per scrivere”, grazie al cuore e alla genialità del fondatore, Camillo Olivetti, e del figlio Adriano, si distinse per l’attenzione alla tecnologia, alla ricerca e all’innovazione, alla cura del design, ma, soprattutto, per l’immensa sensibilità per gli aspetti sociali del lavoro.
Camillo Olivetti, nel passare le consegne e la gestione dell’azienda al figlio, gli lasciò una sola raccomandazione “Adriano fai quel che vuoi ma non licenziare nessuno… la disoccupazione involontaria è la peggior disgrazia che possa capitare ad un essere umano”.
E Adriano fece sua, totalmente, l’invocazione del grande Padre.
Che uomini, che spessore.
Olivetti fu la società di informatica che, nel 1957, realizzò il primo mainframe, il primo grande elaboratore elettronico commerciale, totalmente a transistor e di altissime prestazioni, del mondo: l’ELEA, il cui acronimo stava per ELaboratore Elettronico Aritmetico (successivamente, modificato in Automatico, per ragioni di marketing) ed era stato scelto, con riferimento alla omonima colonia della Magna Grecia, sede della Scuola Filosofica Eleatica, la quale sosteneva che, solo tramite il pensiero, è possibile superare le “false apparenze dei sensi”.
Pensa al livello di avanguardia tecnologica dei laboratori di questa grande e gloriosa azienda.
Nella piccola Italia (una volta il Bel Paese!), c’era un’azienda che, non solo, era in grado di rivaleggiare con colossi mondiali, come IBM e Univac, ma, addirittura di superarli, sia nell’ingegno, sia nella tecnologia.
Questo modo, tutto italiano, di “fare impresa” trasformò, ben presto, l’azienda familiare in un modernissimo gruppo industriale che, negli anni Ottanta, in piena “gestione De Benedetti”, le consentì di essere presente nei Paesi esteri più importanti (USA, Francia, Gran Bretagna, Argentina, Messico, etc.), di realizzare joint venture e partnership con i più prestigiosi produttori di hardware e di software del mondo (Honeywell, General Electric, Digital Equipment Corporation, AT&T, Intel, Microsoft, Cisco Systems, Oracle, etc.), disponendo di Centri di ricerca e sviluppo all’avanguardia, popolati da cervelloni, veri e propri scienziati dell’informatica, vanto dell’ingegno italiano e autori di centinaia di brevetti di interesse mondiale.
Sempre in quegli anni, realizzò il mitico M24, il primo vero personal computer italiano, prodotto presso i gloriosi stabilimenti di Scarmagno, compatibile con il sistema operativo MS-DOS e, quindi, aperto a tutti i software disponibili sul mercato.
Un vero gioiello!
Un prodotto così perfetto e all’avanguardia che, praticamente, si vendeva da solo.
Infatti, grazie ad esso, nel 1985, Olivetti si guadagnò il titolo di secondo produttore di PC, a livello mondiale.
Nel luglio 1988, attraverso un Contratto di Programma con il Ministero per gli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno, venne costituita la Olivetti Ricerca, Società Consortile per Azioni, nata per favorire lo sviluppo delle attività di ricerca e di formazione nelle aree del Mezzogiorno.
Pozzuoli divenne il polo principale della rete di laboratori, a cui si aggiunse anche il Centro di ricerca di Bitritto (Bari).
In sintesi, centinaia di miliardi di finanziamenti pubblici e circa novecento nuove assunzioni di giovani talenti soprattutto del sud.
Fu un evento epocale, soprattutto a Napoli, che vide un bagliore di luce sfavillante.
Grazie ad Olivetti, questa martoriata città stava per diventare il cuore della ricerca informatica dell’Italia, al pari dei più celebrati Poli di ricerca statunitensi, quali quelli di IBM, Intel, HP, Digital Equipment Corporation, Microsoft, etc.
Tra quelli italiani, il marchio Olivetti era il più conosciuto nel mondo.
L’azienda si distinse particolarmente dal resto del panorama industriale italiano, perché non perseguì solo il profitto, ma riuscì a mantenere alta l’attenzione per il progresso sociale e culturale dei suoi dipendenti.
Il caso di Ivrea fu emblematico, in quanto Olivetti ne condizionò lo sviluppo socio economico, rendendola protagonista di un’interessante esperienza di governo locale, incentrata su ideali di federalismo e socialismo umanitario.
I servizi sociali erano perfetti e garantiti dalla sinergia tra l’amministrazione locale e l’azienda.
Basti pensare che il comprensorio industriale disponeva di una fitta rete di ambulatori medici, per tutte le patologie, di asili nido, di una mensa, di una biblioteca, di impianti sportivi e altro ancora.
Il tutto era a disposizione, gratuitamente, per i dipendenti e per i loro familiari.
Altro esempio, lo stabilimento di Pozzuoli, realizzato, nel 1954, dall’architetto napoletano Luigi Cosenza, il quale, per volontà di Adriano Olivetti, creò anche un quartiere abitativo residenziale per i dipendenti.
“I luoghi del lavoro devono integrarsi, per qualità e per vicinanza territoriale, con i luoghi dell’abitare.”
Posto in uno scenario da sogno, i Campi Flegrei, lo stabilimento fu ideato, fin dalle origini, per creare condizioni ideali per il lavoro in fabbrica, senza lesinare gli spazi per i servizi sociali (mensa, biblioteca, assistenza sanitaria, ecc.) e per la vivibilità dei lavoratori (ambienti di lavoro a misura d’uomo ed estese aree di verde, aiuole fiorite, laghetto, viali alberati, etc.).
Anche se solo chi l’ha vissuto può capire cosa sia stato il fenomeno Olivetti, mi auguro di essere riuscito, anche in minima parte, a descriverti e a farti comprendere l’importanza di essere parte di quella realtà.
Mi sentivo a bordo di una corazzata invincibile, indistruttibile!
Orgoglio dell’Italia (una volta il Bel Paese!), avrebbe meritato la massima protezione e tutela, soprattutto, per le generazioni future.
E, invece, niente di tutto questo!
Nessuno si è mai degnato di porre un’attenzione, anche minima, per difendere un patrimonio, un tesoro della società italiana, cosiddetta, civile.
Del resto, non sto scoprendo nulla di nuovo, in quanto scempi come questo sono all’ordine del giorno, in questo nostro sconclusionato Paese (una volta il Bel Paese!).
Comunque, continuando nel discorso iniziale, nei primi anni Novanta il settore informatico mondiale entra in una fase turbolenta, causata dalla standardizzazione dei componenti e dalla globalizzazione dei mercati, e ciò rende critica la difesa della competitività dei prodotti hardware.
Olivetti reagisce, spostando il baricentro dell’offerta verso le soluzioni applicative, il software e i servizi e investe, decisamente, nel business delle telecomunicazioni.
Nel 1994, la neonata Omnitel vince la gara per l’assegnazione della licenza di secondo gestore nella telefonia mobile GSM.
Nel 1995 inizia la sua attività commerciale e, contemporaneamente, nasce Infostrada, per operare anche nei servizi di telefonia su rete fissa.
L’anno successivo, l’ing. De Benedetti lascia tutti i suoi incarichi in Olivetti.
Seguendo, semplicemente, il suo istinto finanziario, molto fine, secondo una logica legata al profitto assoluto, per niente sensibile al futuro di chi gli ha fatto guadagnare onore, soldi e popolarità, decide di mollare la gloriosa e storica società.
Nel 1997, vengono ceduti, a nuovi proprietari, gli storici stabilimenti di produzione hardware di Scarmagno.
Un altro “pezzo di storia” che se ne va.
Questi, qualche anno dopo, subiranno l’onta del fallimento, con gravissime conseguenze per l’indotto, per tutti gli uomini e le donne che vi lavoravano e per la Comunità eporediese (i cittadini di Ivrea).
Ma questa è un’altra storia, anche se, per molti aspetti, simile alla nostra, come potrai verificare più avanti.
Ragionando cinicamente, ossia, con la mentalità di chi punta, solo ed esclusivamente, al “profitto”, ossia a far soldi, il ragionamento non fa una grinza, anzi è perfetto.
Grande figata!
Chissà quanto champagne avrà versato chi ha tratto vantaggio e quattrini da questa operazione di “alta finanza”.
Ma sarà stato consapevole che dentro le coppe vi era anche sangue innocente?
Sicuramente, sia Camillo, sia Adriano Olivetti, dall’alto della loro umanità e della loro sensibilità imprenditoriale, si saranno rivoltati nella tomba e, probabilmente, ogni tanto, avranno dei sussulti, nell’assistere agli scempi compiuti dai loro, a mio parere, indegni successori.
Dimmi cosa si ritrova, oggi, il nostro Paese?
Ed io, allora come ora (la storia si ripete!), continuo a chiedermi come, i governanti dell’epoca, la politica, abbiano potuto consentire, rendendosi, consapevolmente o inconsapevolmente, complici, il compimento di un simile delitto?
Come si sia potuta permettere la distruzione dell’informatica italiana?
Sì, perché l’agonia dell’informatica nazionale e, quindi, del dramma dei “duemila”, di oggi, inizia allora.
Tra l’altro, come hanno potuto permetterlo ad imprenditori, che hanno goduto di privilegi inimmaginabili, in termini di centinaia di miliardi di lire di finanziamenti pubblici, ossia soldi del Popolo Italiano, e hanno portato alla distruzione un’azienda storica, un pezzo di cuore italico?
Un azienda, all’epoca, in salute.
Bada bene!
Per amor del cielo, immagino, anzi sono certo, che, dal punto di vista legale, tutto quanto avvenuto, sia stato condotto con la massima regolarità, ma ciò che discuto è la leggerezza con cui ciò sia stato permesso e l’indifferenza per le conseguenze che ne sarebbero derivate.
Se solo si fosse adottata una sana gestione imprenditoriale, con il sostegno oculato della politica, l’informatica nazionale avrebbe potuto essere salvata e, probabilmente, oggi, i “duemila” non avrebbero vissuto il loro dramma, non ci sarebbero stati tanti caduti, lungo la strada, la gloriosa azienda avrebbe potuto continuare ad essere gloriosa e, sono certo, dare anche un utile contributo contro la disoccupazione giovanile.
Soprattutto quella del Sud!
E invece no!
E la Olivetti è pronta per la cottura!
Pensa, decenni di lavoro, di progetti, di brevetti, di ricerca, di opere sociali e culturali, spesi per costruire un settore di eccellenza e di prestigio, nazionale e internazionale, cancellati in un solo istante, con una disinvoltura, a dir poco, disarmante.
Un pezzo importante di storia italiana che se ne va in fumo!
Viene, infatti, venduta, nel 1997, alla società americana Wang Global, specializzata in servizi sulle infrastrutture informatiche e, di li a poco, quest’ultima viene venduta alla multinazionale olandese Getronics, la quale, con l’acquisizione anche di Olivetti Ricerca, raccoglie, in Italia e nel mondo, l’eredità informatica del gruppo Olivetti, che smette, definitivamente, di parlare italiano.

40 Commenti »

I commenti inseriti dai lettori di AppuntiDigitali non sono oggetto di moderazione preventiva, ma solo di eventuale filtro antispam. Qualora si ravvisi un contenuto non consono (offensivo o diffamatorio) si prega di contattare l'amministrazione di Appunti Digitali all'indirizzo info@appuntidigitali.it, specificando quale sia il commento in oggetto.

  • # 1
    Claudio
     scrive: 

    L’autore sembra criticare la ricerca del “profitto assoluto” come causa del declino.
    Critica inoltre l’assenza di protezione di un patrimonio industriale.
    Condivisibile, per carità, ma avendo lavorato a Ivrea e conosciuto molti ex-Olivetti ho sentito tantissimi racconti (magari alcuni anche leggendari), ma di cui non si fa menzione.
    La grande attenzione nei confronti dei dipendenti fini’ (anche) per dare la possibilità a troppa gente di approfittarsi della situazione. C’era chi dormiva, chi andava funghi, chi giocava con le pistole ad aria compressa… insomma… un declino dettato anche dai(alcuni,non tutti) dipendenti troppo “coccolati” forse?
    Sarebbe interessante chiedere se, secondo l’autore, e’ realistico pensare che l’utopia realizzata si scontro’ anche con i propri dipendenti(ripeto, alcuni – non tutti) e non solo con l’ambiente esterno.

  • # 2
    ncc2000
     scrive: 

    …beh…attenzione, parlo da ignorante “in materia”, e da uomo e consumatore della strada: ma ebbi la netta impressione che il crollo olivetti cominciò già nella seconda metà degli anni ’80, quando propose la linea “Prodest”, una linea di prodotti mediocri, sviluppati da altri e rimarchiati (o meglio, prodotti su licenza) olivetti. Non si va avanti così, senza ricerca. Evidentemente c’era qualche problema nei piani alti dell’azienda, problema che non avrebbe portato da nessuna parte…come poi è stato difatti. Mi chiedo come sia stato possibile passare in così pochissimi anni dall’accoppiata formidabile m20/ m24 a,come da me già detto, limitarsi a produrre prodotti sviluppato da terzi.

  • # 3
    Roberto
     scrive: 

    Certo che con tutte queste virgole buttate a caso, manco fosse un campo da seminare, è ben difficile arrivare in fondo… dè così anche il testo originale?

  • # 4
    Rosario Careri
     scrive: 

    Sai, Roberto, sono soltanto un modestissimo ingegnere, molto più attento alla sostanza che alla forma, e non mi vanto di essere un fine letterato, come sicuramente sarai tu.
    Ti chiedo venia se sei inciampato in qualche virgola e mi auguro che non ti sia fatto troppo male.
    Tuttavia, ti voglio dire una cosa e colgo l’occasione per dirla a tutti coloro che vogliono fare commenti: “le Onorate Società” non è un libro sulla Olivetti, ma sulla tragedia di 2.000 lavoratori, quelli di Agile ex Eutelia, che sono stati buttati in mezzo alla strada, a causa del comportamento delinquenziale di alcuni farabutti, travestiti da imprenditori.
    Il breve capitolo sulla Olivetti vuol mostrare la differenza tra due modelli, quello incentrato sull’idea di imprenditoria vera e quello basato sull’avidità, sull’indifferenza e sul cinismo, che oggi impera nella nostra società.
    Infine, mi sta bene qualsiasi tipo di commento, ad eccezione di quelli che contengono offese gratuite e di cattivo gusto, anche se il commento andrebbe fatto sul libro e non sul singolo capitolo.

  • # 5
    sbaffo
     scrive: 

    beh, anche l’IBM ha rischiato il fallimento, adesso si è ripresa ma ha venduto ai cinesi la divisione hardware (Lenovo). Molte altre grandi società IT USA dell’epoca oggi non ci sono più.
    Purtroppo la Olivetti era l’unica italiana di quella caratura.

  • # 6
    Andrea Del Bene
     scrive: 

    Ogni volta che penso ad Olivetti penso che fino al 98 era proprietaria di quella che poi sarebbe diventata ARM Holding!
    Se avesse avuto un buon manager e avesse conservato i rami “buoni” dell’azienda, oggi Olivetti sarebbe ancora una delle aziende più influenti e forti del panorama IT.

  • # 7
    Bhairava
     scrive: 

    Con tutto il rispetto per l’ autore dello scritto(e sono un semplice ingegnere anche io) il testo sembra davvero scritto a mo di tema da 1° liceo. Non ci vogliono profonde conoscenze letterarie per scrivere un testo in maniera più scorrevole e leggibile.
    Per quanto riguarda il contenuto, non mi pronuncio non essendo a corrente di come andò la cosa; mi meraviglio solo di come possa un’azienza crollare dalle stelle alle stalle in così poco tempo. Un pò come Kodak..

  • # 8
    Alessio Di Domizio (Autore del post)
     scrive: 

    Facciamo così: ognuno si tenga le proprie considerazioni stilistiche, vogliamo cortesemente tornare in topic?

  • # 9
    Altrove
     scrive: 

    Io c’ero.
    Ho cominciato a maneggiare informatica a 20’anni appena diplomato in elettronica industriale.
    E posso affermare con totale sicurezza che questo “articolo” è un inutile orpello della verità incontrovertibile: che i tempi cambiano.
    Olivetti era qualcuno negli anni ’80, ma già all’inizio degli anni ’90 era diventata un carrozzone dagli alti costi e dal management yuppi, incapace e teso solo al proprio prestigio.
    E non a caso questo ingegniere vede come vanto della sua vita diventare “manager” e non capo progettista.
    Uno scribacchino da soldi, non un creatore.
    Uno di quelli che con il progetto arm in mano lo ha fatto andare a ramengo, regalandolo ad altri.
    Uno di quelli che hanno fatto fallire l’Archimedes per miopia.
    Una vergogna.

    E poi ci lamentiamo di essere quello che siamo?

    Ipocrisia a gogo’, altrochè.

    Altrove

  • # 10
    Alessio Di Domizio (Autore del post)
     scrive: 

    @ 11
    Scusa ma di che stai parlando? Te la stai prendendo con uno che lamenta dell’Olivetti la stessa degenerazione che ravvisi tu? Quale responsabilità particolare hai da imputargli? Il fatto di essere stato dipendente Olivetti durante il declino? Credi dipendesse dai dipendenti? Lo sai chi era Valletta? E Visentini? La diatriba fra manager e capi progettisti è ridicola. Per tua informazione Adriano Olivetti era un manager. Mi sa che se c’eri, eri girato dalla parte sbagliata.

    PS Dato che ti definisci un cultore della materia, negli anni ’80 la divisione elettronica della Olivetti, quella dell’ELEA, era già finita da tre lustri. Fai un po’ tu.

  • # 11
    dave
     scrive: 

    premetto che io all’epoca ero solo un ventenne appassionato e non “addentro”.
    però a me pare che il momento di grande (e relativamente lungo) successo commerciale di olivetti sia fortemente legato all M24 e, in minor misura ai suoi upgrade (gli M300 e via di questo passo).
    La cosa che mi ha sempre lasciato perplesso è come questi modelli fossero sempre presenti in qualunque amministrazione statale e parastatale (ivi comprese le 3 banche di interesse nazionale), arrivando sulle scrivanie anche quando ormai decisamente obsoleti.

    Qualche anno dopo un cliente che lavorava per la concorrenza mi disse che, in quegli anni non c’era niente da fare; olivetti si aggiudicava gli appalti sempre e comunque, a prescindere dalla validità tecnica e economica dell’offerta.
    se davvero questo era il segreto del successo di olivetti… beh, non è difficile capire quali siano state le cause del declino.

  • # 12
    Massimo M
     scrive: 

    Non volgio entrare nel merito, ma i miei ricordi (laureato nel ’93) sono ancora vivi. Ricordo come l’M24 veniva definito il miglior “compatibile” (MC Microcomputer). Poi arrivò l’ora dello scontrino fiscale obbligatorio (con registratori di cassa Olivetti) e 286 (vecchi di lusti) nelle banche, tutti di Olivetti che vinse(?) appalti. Da qui mi ricollego all’articolo …
    Però mi piange il cuore oggi,a 46 anni mi trovo disoccupato nonstante la mia laurea e 20 anni di esperienza. Trovo contratti a termine a 1.300/mese, e mi tocca accettare. Oggi neppure quelli.
    Eravamo i migliori nell’acciaio, abbiamo venduto (Sesto SG)
    O tra i migliori, come
    nella chimica
    nell’informatica
    nell’elettronica
    nella meccancia (chi si ricorda della nuovo pignone)
    nel nucleare! (ma almeno qui ci fu uno scellerato referendum)
    nella fisica.
    Oggi siamo in fondo.
    Scusate lo sfogo!

  • # 13
    Massimo M
     scrive: 

    Letto adesso il commento di Dave: è esattamente quello che ho “sentito” dire anche io. Insomma, la solita vecchia storia di inciuci all’italiana. Fosse servita per la comunità, par la R&D etc … Invece per la solita ristretta cerchia di soliti noti.
    Ricordo i tempi di mani pulite: De Benedetti venne portato in questura suna delta integrale gialla, ascoltato “come tra amici” poi rilasciato, nonostante gravi indizi di peculato.
    Ricolrdi, magari non perfetti, memoria labile, ma reali!

  • # 14
    Alessio Di Domizio (Autore del post)
     scrive: 

    @Dave
    L’epoca in cui Olivetti rischiava di diventare davvero IBM erano gli anni ’50 e i primi anni ’60. La cessione della divisione elettronica a GE e il progressivo abbassamento del tasso innovativo – figlio di una cultura imprenditoriale nazionale rispetto a cui Adriano Olivetti rappresentava una notevolissima eccezione – segnarono forse molto prima della fine sostanziale, il destino di Olivetti.
    Anche se fosse durata la supremazia nel mercato PC dopo l’M24, Olivetti non avrebbe comunque potuto resistere all’aggressione dei cloni e all’apertura del mercato degli appalti. Non a caso nel 2004 IBM vendette il business PC alla cinese Lenovo, dopo aver accumulato massicce perdite. Le rimase in mano un corposo business di prodotti e servizi orientati all’impresa (dalla media alla grande) che ne fa oggi un colosso da oltre $ 200mld di capitalizzazione.

    @ Massimo M
    Condivido appieno il tuo sfogo. Mi viene da lanciarmi in un’invettiva contro la classe politica ma poi temo tutta la discussione virerebbe altrove…

  • # 15
    arkanoid
     scrive: 

    Senza rivangare il passato, esiste un parallelo papale papale che si chiama FIAT. Per ora l’orgoglio italiano dell’industria automobilistica, quello che addirittura compra Chrysler facendo credere agli italiani di aver acquisito la Ferrari d’America quando semmai ha preso la Maruti d’India, tiene botta.
    Tiene botta grazie ad una figura carismatica che ci mette la faccia e ha avuto anche un po’ di fortuna nelle sue scelte. Il mercato però è quello che è e vive di regole diverse, costi diversi, culture diverse ma soldo comune. Olivetti non ha saputo rimanere a galla anche per questo, credo, in un mondo in cui altri lavorano il triplo e si sognano i benefit se vivi solo sulla certezza di soldi pubblici prescindendo dal meritarteli (cosa discutibile a prescindere) hai il fiato corto.
    Quando toccherà a fiat tra un paio d’anni saremo qui a dire le stesse belle cose.
    Temo che finchè la politica sarà gestita come lo è in italia, succube delle decisioni di politici di altri stati e per nulla lungimirante e rispettosa dell’interesse locale a lungo termine, falliremo tutti lentamente. Tutti i grandi “imperi” economici ed industriali in Italia finiscono obbligatoriamente col passare nelle tasche dei politici, cose da cui non se ne può uscire indenni, la soluzione normale è l’abbandono delle aziende e il salvataggio (con onore) di dirigenza e politici a supporto.

  • # 16
    Alex
     scrive: 

    Forse non vi rendete conto ma la storia si sta ripetendo di nuovo. La Fiat sta per sparire perchè un manager da quattro soldi che non capisce nulla di auto ma solo di soldi vuole fare affari altrove.

  • # 17
    dave
     scrive: 

    se non fosse per quel manager da quattro soldi sarebbe già sparita da un lustro almeno.

  • # 18
    Massimo M
     scrive: 

    Vero Dave, sorebbe già sparita. Si è salvata con la 500 e qualche scelta azzeccata (indovinata ?). Ma rimane il problema che a fianco di personaggi illusti e figure meritevolisiamo finiti in fondo al burrone.
    IMHO, riferendomi ad un articolo di Report, il passaggio è stato fatto quando ci siamo affidati all’edilizia. Insomma siamo in mano a palazzinari, che hanno preferito l’interesse privato a quello pubblico. E questo è il modo di pensare italiota, cui non sento di appartenere.

  • # 19
    Cesare Di Mauro
     scrive: 

    Visto che abbiamo tirato in ballo le lettere, si scrive:
    – “ingegniere” e non “ingenere”;
    – “perché” e non “perchè”;
    – “dà (fastidio)” e non “da (fastidio)”;
    – “chi ha orecchie per intendere” e non “chi ha orecchie da intendere”.

    Certo che trovare errori grammaticali così grossolani in così poche righe… ce ne vuole.

    Al solito, si predica bene, ma si razzola molto male. Un sano bagno d’umiltà non guasterebbe.

  • # 20
    sbaffo
     scrive: 

    veramente il mio dizionario dice che si scrive “ingegnere” senza la “i”.
    Forse è meglio restare in topic e soprassedere sullo ‘stile’, come dice il mod, invece di fare figuracce…

  • # 21
    Cesare Di Mauro
     scrive: 

    Hai ragione, la fretta è cattiva consigliera. Fortunatamente sono casi più unici che rari.

    Torniamo pure in topic.

  • # 22
    Robert
     scrive: 

    Sono troppo giovane e non ho vissuto gli anni dell’orgoglio OLIVETTI. Ho trovato l’articolo molto interessante perché racconta una storia tutta italiana, non dall’esterno, ma vissuta direttamente dall’autore. Ho colto piacevolmente l’idea di una città fabbrica a “misura d’uomo” con impianti sportivi, ambulatori, asili nido etc. non solo, ma sembra che lavorando in quel contesto ci fosse una autorealizzazione ovvero percezione positiva ed ottimistica del futuro, cosa che oggi negli ultimi anni sta mancando a noi giovani precari.

    A mio parare, noi italiani abbiamo un’innata capacità a dedicarci al “lamento da bar”: ci si lamenta della fuga di cervelli all’estero, ci si lamenta della chiusura dei centri di ricerca, delle fabbriche, … ci si lamenta della politica. La verità è che finché la cosa non ci tocca personalmente o direttamente, ma sono gli altri ad essere licenziati o a chiudere un indotto, guardiamo la cosa dall’esterno e facciamo chiacchiere. Gli esempi non si contano sulle dita, negli ultimi anni i poteri forti hanno agito come volevano, tutti ci siamo lamentati, ma nessuno ha mosso un dito secondo il principio del “mal comune mezzo gaudio”.

  • # 23
    Caterpillar
     scrive: 

    Sottoscrivo quando detto da #9 utente Altrove.
    Da studente di ingegneria informatica non me ne importerebbe nulla di condurre una filiale di un’azienda, io vorrei sempre stare in mezzo a persone creative che inventano nuove tecnologie. Il fascino dell’inventare qualcosa di nuovo è incommensurabile, il fascino del gioco di squadra quando si creano progetti, ma cosa me ne potrebbe infischiare di un negozio?

    Per quanto riguarda i bei tempi andati, ci scordiamo di stm microelectronics e di tante altre cose che una volta erano Olivetti (e quindi italiane). C’è da mettersi a piangere pensando a quel che hanno sperperato, rendetevi conto che il primo elaboratore a transistor del mondo intero fu costruito a Pisa. Ora una copia è in un istituto tecnico informatico e lo utilizzano per spiegare agli studenti come funzionano le architetture di calcolatori. Non so che darei per poterlo visitare!

    Personalmente mi mette sempre tristezza pensare al sogno informatico italiano distrutto completamente.
    Chiudendo questo post mi viene in mente che Adriano Olivetti fu colui che permise l’unione tra tecnologia e design, molto prima di un certo frutto che ora viene elevato a religione.

    In fondo a questa pagina di Wikipedia potrete trovare molti link interessanti
    http://it.wikipedia.org/wiki/Olivetti

    :-(((((((

  • # 24
    relaurino
     scrive: 

    vogliamo per favore renderci conto della realtà dell’epoca e non parlare di aria fritta?

    i pc olivetti erano i peggiori pc sul mercato, una piattaforma chiusa, hardware proprietario… ricordo ai tempi che era quasi impossibile perfino installarci un lettore cd o cambiare la ram… perfino gli hard disk davano problemi…

    ecco perchè sono falliti. non hanno saputo stare al passo coi tempi. all’epoca un pc olivetti con 486dx costava 4.000.000 di vecchie lire… un pc assemblato esattamente 1/4

  • # 25
    Alessio Di Domizio (Autore del post)
     scrive: 

    @ 25
    Prodotti mediocri sono stati una conseguenza del declino, non una causa. Quelli a cui fai riferimento sono di certo successivi all’epoca d’oro di Olivetti, quando i suoi computer facevano scuola a livello mondiale.

  • # 26
    Alex
     scrive: 

    @dave

    Mi dici la FIAT cosa ha fatto in questi anni oltre a licenziare ed a chiudere stabilimenti per rilanciare il marchio con nuovi prodotti. In questi anni a parte la 500 che hanno spremuto fino alla nausea che prodotti innovativi sono stati realizzati? Non dirmi la panda! Vedi quante auto hanno fatto flop nell’era di Marchionne. E vogliamo parlare del rilancio dell’Alfa Romeo rimandato ormai da anni?! Per favore così come una volta si guadava all’olivetti per l’innovazione sei suoi prodotti una volta i tedeschi ci copiavano le macchine!

    Riporto da wikipedia uno stralcio della storia della Fiat 128. “La 128 ottenne subito un notevole successo di pubblico e di critica, aggiudicandosi il premio di Auto dell’anno nel 1970. Narra la leggenda che Giorgetto Giugiaro, recandosi a Wolfsburg per presentare i bozzetti del disegno della futura Golf, vide nel reparto progettazione Volkswagen una 128 completamente smontata; i tecnici tedeschi ritenevano infatti che la berlina Fiat fosse il miglior esempio di “auto medio piccola” moderna.”

  • # 27
    Rosario Careri
     scrive: 

    Caro “caterpillar”, solo per fornire una notazione storica ed evitare equivoci.
    Una filiale commerciale dell’epoca non era un negozio, ma una struttura della società composta da tecnici specialisti di hardware, di software applicativo, di sistemi operativi, da personale amministrativo, da account dedicati alle vendite, con un proprio conto economico ed obiettivi di vendita e di fatturato.
    Tale struttura non era un centro di progettazione tecnologica, ma di realizzazione di progetti applicativi, utilizzando la tecnologia disponibile!
    Il segreto del successo di una filiale risiedeva proprio nella creatività e nel lavoro di squadra, elementi indispensabili per la buona riuscita dei progetti acquisiti, sia per fatturare ed incassare (quindi automantenersi), sia per conquistare la fiducia dei clienti e guadagnare fette di mercato.
    Lavoro di squadra che, in caso di progetti complessi, richiedeva l’intervento e la collaborazione di colleghi, provenienti da strutture centrali, esperti e competenti in problematiche particolari, sia di natura tecnologica, sia di natura applicativa.

  • # 28
    Gnome
     scrive: 

    Tristissima la fine di Olivetti, c’e’ davvero poco da aggiungere. Ringrazio Alessio per averci dato la possibilita’ di leggere questa testimonianza.

  • # 29
    mike1961
     scrive: 

    C’ero anch’io.
    Ci sono ancora e condivido tutto quello che scrive Rosario.
    Queste polemiche stucchevoli sul fatto che l’Olivetti vendeva alla pubblica amministrazione sono, secondo me, del tutto fuori luogo.
    Se vai in Germania era (ed è) tutto Siemens.
    In Francia la Bull spopolava.
    In Inghilterra c’era Digital.
    Non vi sembra normale che una pubblica amministrazione compri prodotti di un’azienda nazionale?
    Perchè noi Italiani dobbiamo fare sembre come Tafazzi e dobbiamo masscrarci le p..le da soli??!?

  • # 30
    lured
     scrive: 

    La storia dell’olivetti come di altre realtà industriali italiane non mi sembra abbia nulla di chè. MI spiego meglio. Il mercato impone regole e condizioni che se non soddisfi ti espelle. La faccio facile ma in grande sostanza l’olivetti paga due passaggi fondamentali: 1) progressivo distacco del management dal “mercato” 2) entrata della politica (normalmente caratterizzata da obiettivi NON di mercato).
    aggiungerei un terzo punto. Qui entriamo nella fantapolitica. La difficoltà della politica nel senso più alto a definire confini industriali e commerciali strategici per il paese orientando le risorse del paese in servizi all’impresa. Si badi bene che non è compito della politica far funzionare le nostre società. Dove le ha fatte “funzionare”, vedi gli appalti pubblici, sono fallite o svanite nel nulla.
    Concludo affermando che, sebbene sia ovvio ai più, il nostro bel paese o in senso lato il nostro mondo è in continua evoluzione. Evoluzione che modifica continuamente ciò che caratterizza la nostra industria, il nostro stile di vita e chi più ne ha più ne metta (anche il territorio!!) pertanto e inimmaginabile pensare all’immutabilità delle cose. Quello che rimane del passato è spesso nostalgia. Per qualcuno si stava meglio quando si stava peggio?!

  • # 31
    Luc
     scrive: 

    @ IURED
    “La storia dell’olivetti come di altre realtà industriali italiane non mi sembra abbia nulla di chè.”

    No? Non ha nulla di che? Cribbio !!!
    In effetti proprio una scemenzina……

  • # 32
    Massimo M
     scrive: 

    @mike1961:
    Perchè tutto è morto lì, ad Olivetti. Forse tu ci sei ancora (anzi, ne sono sicuro) ma come tutte le altre relatà italiane si sono fermate. Ed il bello è che eravamo meglio di quanto segnali tu in Franzia, inghilterra e Germania!
    Ci lamentiamo perchè di queste eccellenze non è rimasto nulla. Non so all’estero, ma QUI perchè è puù facile lasciare morire una soluzione vincente ed affidarsi ai contratti. E ricorda che mentr in Italia costa 500 in Francia o altri paesi menzionati costa 100 (oggigrno si sente la metafora con le autostrade e le ferrovie, ma è uguale anche nelle restanti cose). Sono felicissimo di vedere Olivetti nella mia banca. Un po’ meno quando vedevo i 286 NUOVI quando potevi comprare i 486! Intanto i costi della politica (ed anche del mio conto corrente) erano multipli degli altri paesi. DOve gli stipendi erano (sono) doppi!
    Nota bene che … le auto blu sono TUTTE straniere. Non mi pare di vedere la stessa cosa all’estero. Però potevamo dire la nostra in quel settore. Penso ad esempio all’Alfa Romeo: quanta innovazione, quanta ricerca buttata al vento.
    L’ABS, il common rail? Roba nostra. Data all’estero perchè non siamo in grado di svilupparla.
    Ti scirve in ing. di reparto R&D. A casa in mobilità ormai da due anni. Mi propongono stipendi da fame … che accettai. in passato, con contrati a termina. Adesso come vedi dall’orario sono a casa. NOn ci sono più neppure quelli!

  • # 33
    Massimo M
     scrive: 

    Prova un po’ a pensare a realtà come Apple, B&O, Loewe. NOi,patria del design erchè non possiamo competere con queste “grandi”. Ed eravamo lì prima di loro.
    No. E’ più bello far carriera con l’amicizia politica e con i soldi facili delle commesse pubblice. Che ci hanno portato al debitopubblico attuale!

  • # 34
    Tiberius70
     scrive: 

    Con l’M24 Olivetti aveva esagerato,troppo successo, quindi dagli USA hanno dato l’ordine ai politicucci italioti e a DeBenedetti di frenare e smontare la baracca e lui ha ubbidito, riempiendo l’azienda di Yuppies modello Wall Street (il film del 1987 – guardate come era ben realizzata la teoria dello spezzatino da Gekko…) e scappandosene prima del tracollo.

    Ovviamente oggi DeBenedetti, che si fregia del titolo di Ingegnere, è ancora considerato un grande Imprend… finanz… faccend…
    Mi consolo pensando che ognuno risponde alla propria coscienza (e quella ci metti poco a zittirla…) ma soprattutto al proprio DIO, e lì sono cavoli…

    Povera ITALIA!

    Se poi i dipendenti Olivetti usavano fare gli assenteisti cercafunghi o i dormiglioni alla scrivania, allora “chi è causa del suo mal pianga sé stesso”

  • # 35
    Simone Serra
     scrive: 

    Penso che in Olivetti, così come in tutte le aziende Italiane che hanno sviluppato un legame “perverso” con la politica, si sia innescato un cortocircuito tra la visione aziendale e quella puramente economica della dirigenza… nel momento in cui l’azienda si è estesa aprendo poli di ricerca con ingenti risorse pubbliche (cosa lecita ed auspicabile, ciò che non dovrebbe esserlo è il passo successivo) si è trovata a dovere subire (o forse non ha subito ma ha voluto) dalla stessa politica (nella persona di diverse figure, comprese sindacali) assunzioni clientelari. Nel momento in cui un’azienda “si intossica” da tali assunzioni (che difficilmente rispecchiano le reali esigenze di professionalità) il suo declino viene senato irrimediabilmente.

    La colpa di ciò? La mancanza di passione, di un sogno che non sia nel puro arricchimento personale (lecito a patto che non sia fatto a scapito dell’azienda), nel non sentirsi parte di un’azienda come di una creatura viva, bensì sentire l’azienda ai propri piedi o da usare come un limone… DeBenedetti è stato considerato un grande finanziere, un grande imprenditore, ma la mia impressione è che abbia solamente dimostrato un forte senso del guadagno personale senza alcuna delle qualità che contraddistinguono ed hanno contraddistinto i veri imprenditori

    Il tutto ovviamente IMHO

  • # 36
    Cesare
     scrive: 

    “Non vi sembra normale che una pubblica amministrazione compri prodotti di un’azienda nazionale?”
    No. Perché significa che non compri qualità ad equo prezzo, ma (probabilmente) compri voti e finanziamenti ai partiti.

    Se non c’è gara, non c’è competizione, non c’è voglia di migliorarsi. Non significa far suicidare i dipendenti in stile cinese, significa far ricerca, innovare e non seguire, ascoltare e aiutare i clienti invece di mungerli e basta.
    Se l’azienda che è radicata nel territorio non è capace di far fruttare questo vantaggio culturale e logistico ma deve appellarsi agli appelli populisti del “buy italian”, allora è chiaro che è finita, come un matrimonio in cui trattieni con te il partner per il vincolo legale o gli accordi patrimoniali e non per aver ancora un progetto di vita comune.

  • # 37
    lured
     scrive: 

    condivido sia @serra che @cesare

    Se ci pensate è come la famosa teoria dell’onda: no devi mai trovarti sulla cresta dell’onda ma sempre un “pochino” prima per poterla cavalcare.
    Bella metafora per indicare che in Olivetti non sono stati capaci di governare il businness mantenendo “ferreamente” la logica di cui sopra. Anzi si sono probabilmente crogiulati con alcuni successi e come l’onda che arriva al suo apice improvvisamente crolla. Così è stato per la nostra azienda di informatica. Poi il cuore di chi vive “quegli” anni da evidenza di tutta una serie di se e di ma per giustificare il “cosa sarebbe stato se”. Purtroppo un circolo vizioso poco utile.

  • # 38
    Roberto
     scrive: 

    Il post è vecchio ma l’argomento è di attualità.
    Bene, io C’ero, si ero in Olivetti ricerca e al dire il vero si sentiva un po di struttura finanziata senza futuro. Una parte del personale era a alto potenziale, ma il management era solo interessato ad incassare i finanziamenti. I PC Olivetti erano comprati a dei prezzi scandalosi, fuori mercato: Olivetti ricerca era un cliente per Olivetti. Per non parlare di montagne di corsi di formazione di livello scarso anch’essi pagati a caro prezzo … non c’erano attività molto veramente produttive… molta gente era li senza alcun talento, in un altro paese sarebbero non sarebbero entrati. Per non parlare del balletto dei badge tumbrati da colleghi per imbrogliare sugli orari…
    Sono rimasto qualche anno, poi son scappato prima che crollasse il castello di carta. La vendita poi a Wang/Olsy/Getronics un vero disastro.
    Cio’ nonostante ho bei ricordi… come si dice a Napoli si cazzeggiava parecchio in Olivetti Ricerca.
    Saluti

  • # 39
    Mauro
     scrive: 

    La retorica è peggio della peste in epoca pre antibiotici: inutile invocare i valori che ispirarono Camillo ed Adriano Olivetti, e chiudere al contempo entrambi gli occhi sulla realtà degli anni ottanta. Si finisce solo per parlare astrattamente senza capire di che diavolo si stia realmente discutendo.
    Non è dunque questione di licenziare o non licenziare manodopera: in Olivetti vi era il triplo del personale necessario, pagato 1/3 di quel che un consulente esterno veniva a percepire dedotte le tasse. Semplicemente non si sarebbe dovuto assumere il triplo del necessario, in Olivetti si finì con avere commesse sufficienti per impiegare proficuamente un solo dipendente su tre.
    La causa di tutto questo furono le assunzioni che avvenivano per strette ragioni di clientela, pur di poter fare affidamento sopra un serbatoio di voti e per cercare di conservare la pace sociale offrendo uno stipendio inadeguato ma distribuito sul triplo del personale effettivamente necessario.
    Chi pagava era Pantalone, la linfa vitale che scorreva in Olivetti erano i denari delle commesse pubbliche o dei grandi gruppi bancari. Con una simile organizzazione (monopolistica) del lavoro mai e poi mai si sarebbero potute affrontare le sfide poste da un mercato regolato dalle leggi politiche ed economiche della libera concorrenza: e fu ciò che in seguito avvenne.
    Più in generale si stava caoticamente cercando un’uscita dalla conflittualità degli anni di piombo, con ricette e provvedimenti quantomeno stravaganti e di cortissimo respiro: era un bizzarro tentativo di far coesistere gli opposti, ad esempio speculazione e giustizia sociale, spacciando l’assurdo di un tale modo di procedere come trovate geniali in grado di conciliare conflitti insanabili.
    Erano solo trappole e scorciatoie, quelle di oggi sono le conseguenze di ciò che venne seminato allora.
    Spesso fa comodo essere di memoria corta, non ricordare che era l’epoca della Milano da bere. Se con Milano s’intende l’industria del Nord, ebbene quell’industria ce la siamo proprio bevuta.
    Come? Con la speculazione immobiliare ad esempio, palazzi patrizi oppure di recente costruzione che moltiplicavano il loro valore dalla sera al mattino successivo ed oggetto di compravendite quantomeno dubbie per la provenienza dei denari con i quali si procedeva a tale genere di affari. Era un trasferimento di capitali dalle attività produttive alla speculazione effettuando transazioni fondate sul rastrellamento illegale della liquidità: traffico di droga, evasione fiscale e chi più ne ha …
    Quando addirittura non erano altri che gli stessi imprenditori a disinvestire dall’industria indirizzando i capitali verso altre e più remunerative mete.

  • # 40
    leA
     scrive: 

    Titolo Il mondo che nasce: dieci scritti per la cultura, la politica, la società

    Volume 1 di Collana Olivettiana
    Autore Adriano Olivetti
    Curatore Alberto Saibene
    Editore Edizioni di Comunità, 2013
    ISBN 8898220022, 9788898220021
    Lunghezza 139 pagine

Scrivi un commento!

Aggiungi il commento, oppure trackback dal tuo sito.

I commenti inseriti dai lettori di AppuntiDigitali non sono oggetto di moderazione preventiva, ma solo di eventuale filtro antispam. Qualora si ravvisi un contenuto non consono (offensivo o diffamatorio) si prega di contattare l'amministrazione di Appunti Digitali all'indirizzo info@appuntidigitali.it, specificando quale sia il commento in oggetto.