Il pessimismo di Kojima sull’industry giapponese di videogiochi

Kojima MGSHa fatto il giro del mondo, anche se in Italia pare essere rimasta abbastanza inascoltata, la notizia in cui Hideo Kojima, intervistato insieme a Toshihiro Nagoshi, produttori di due serie molto famose quali Metal Gear Solid e Yakuza, ha parlato del futuro del business made in Japan e del confronto col mercato europeo ed americano.
Nonostante abbia descritto una situazione che è nota non solo agli addetti ai lavori ma anche visibile agli occhi degli utenti finali ( che da qualche anno hanno potuto apprezzare determinati cambiamenti di rotta), fa specie vedere con quanta sincerità e forza abbia voluto trasmettere il proprio messaggio, forse proprio per dare un segnale di scossa ai suoi colleghi.
Ed è un messaggio che sia come contenuto sia come forma assolutamente non in linea con i canoni di comunicazione giapponese, solitamente molto più a basso profilo e mai così diretta.

Come anticipato dal titolo, il tono è assolutamente pessimistico e una presa d’atto quasi ineluttabile di quel che accade in Giappone, se confrontato con gli altri panorami occidentali.
Non è un caso che a un certo punto dell’intervista, seppur probabilmente detto col sorriso, Kojima affermi “Maybe I Should Quit Being Japanese” ovvero “forse la dovrei smettere di essere (e pensare da) giapponese”, una frase che lascia trasparire tutta l’amarezza verso i propri connazionali che non hanno saputo cogliere le tendenze che mutavano di un pubblico oggi molto più eterogeneo ed esigente sì ma su piani differenti di una volta.

A questo punto però c’è il rischio potenziale per il lettore di non capire l’essenza del problema.
In fondo il Giappone è pur sempre una potenza del settore che vale da solo quasi un terzo del mercato globale e che rappresenta appunto uno dei tre poli principali insieme a Stati Uniti ed Europa che va considerata nella sua entità continentale.
Non solo, c’è anche la tradizione importante, i marchi prestigiosi (Sony e Nintendo per esempio), i videogiochi che hanno conquistato l’olimpo e il cuore dei tanti giocatori sparsi per il mondo e Super Mario ne è forse l’icona più adatta in questo senso.
Eppure dall’altra parte, come”altra campana” abbiamo Hideo Kojima, un quarantenne che al pari di Miyamoto ha riscritto la storia, inventando e reinventando un genere come lo stealth game con Metal Gear e prodotto altri capolavori tra i quali Snatcher (miglior gioco con ambientazioni cyberpunk forse di sempre…e ne sentiremo ancora parlare).
Dove sta quindi la verità?
La chiave del problema risiede proprio nella parola “tradizione”. I giapponesi, seppur noi dall’esterno li vediamo come un popolo estremamente votato al guardare avanti (di cui la tecnologia è espressione materiale di questa vocazione) sono molto legati alla tradizione.
In questo modo però concentradosi solo sul mercato interno, si è finiti per perdere gli spunti di originalità e spinta all’innovazione che furono invece il motore di quei 15 anni di dominio tra gli anni ’80 e ’90 in cui le sale giochi erano invase dai coin-op Capcom, SNK, Taito e Namco.
Ora i concept originali scarseggiano ed alcuni sono talmente estremi e lontani dai nostri costumi che le software house nipponiche temono di esportarle oltreoceano e preferiscono rimanere nella madrepatria.
Chiaramente però è un circolo vizioso: le case produttrici non investono per produrre titoli che siano appetibili all’estero, mercato che quindi rimane ad appannaggio dei vendor occidentali i quali nel frattempo con gli introiti accumulati si arricchiscono e possono puntare a prodotti con budget più ampi e più impegnativi dal punto di vista tecnico.
Francesco Carucci in queste settimane ha bene illustrato i complessi passaggi e le disponibilità non solo finanziarie necessarie per portare a compimento un progetto di questo tipo.
E’ chiaro che senza le revenue che un target di pubblico esplorato a 360° può portare, non vi sono nemmeno gli necessari investimenti per creare titoli competitivi.
Vivendi, EA, Ubisoft sono diventati dei giganti ma non lo sono diventati certi dall’oggi al domani, bensì con una pianificazionea livello manageriale di lungo respiro e prospettiva e nel frattempo i competitor nipponici sono rimasti decisamente a guardare.
In più c’è il problema della poca attrattività per alcuni generi quali il First-Person-Shooter che spiccano da anni per l’uso dei più avanzati motori 3D ma che in Giappone semplicemente non sono presi in considerazione; al contrario spopolano i J-RPG, giochi di ruolo for japanese only, anch’essi però con meccaniche di gioco, artwork e character design non così variegati e ben assorti come i Valkyrie Profile, Vagrant Story o Star Ocean dei bei tempi che furono.
Barriere culturali, l’utilizzo della sola lingua giapponese al posto dell’inglese, gestione poco oculata delle posizioni di mercato ottenute durante gli anni d’oro, investimenti non adeguati e incapacità di saper cogliere le nuove tendenze sono dunque le motivazioni per cui secondo Kojima il Giappone potrebbe essere di fronte ad anni bui e di “isolazionismo” se non addirittura terra di conquista un giorno da parte degli operatori “gaijin“.
Se però questo è un problema per il mercato globale che non può rischiare di perdere altri pezzi per strada con tanta storia e profuso talento alle spalle (la dipartita di Sega dal confronto hardware è solo una delle vicende di questa amara cronaca), non lo è per gli appassionati di retrogaming esterofilo-giapponesi che vivono una situazione diametralmente opposta: il fenomeno di massificazione e di unificazione ideale delle tre piattaforme continentali azzererebbe almeno in parte quella disponibilità di titoli in qualche modo unici e producibili solo in Giappone (come i giochi di pachinko o gli hentai-game per esempio) che arricchiscono e completano le collezioni dei retrogamer di dell’intero globo terrestre e che, come abbiamo visto ieri nell’appuntamento settimanale con la rubrica tematica, vede ancora nel Sol Levante la meta per la realizzazione dei propri desideri più inarrivabili.

La frattura tra Giappone e resto del mondo è però storia vecchia e d’altra parte l’isolazionismo e il fiero spirito nazionalista non traspaiono certo solo dai videogiochi che rappresentano solo una piccola faccia di questa complessa area geografica.
Kojima è pessimista poiché rileva come il conflitto sia prima ancora di tipo socio-culturale che commerciale.
Dal canto suo però rivela di essere abbastanza prossimo all’annuncio di un progetto piuttosto ambizioso ma che sarà in grado di rivaleggiare con gli stranieri suoi pari.
Vedremo di cosa si tratterà dunque nei prossimi mesi. Con Project S si era parlato di un possibile utilizzo della saga di Snatcher/Policenauts, poi ci sarebbe l’opzione Metal Gear Solid ma con un nuovo main character e certamente non disdegneremmo (tutt’altro) la presenza di uno Zone of The Enders anche sulle console di ultima generazione, oppure l’ipotesi di un progetto completamente ex novo.
Quel che è certo è che una ventata d’aria fresca anche dall’Oriente servirebbe a tutti, sia ai giapponesi che a noi.

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