Il Digital Markets Act (DMA) nasce per punire il successo delle imprese

Dopo tante discussioni e lavori che lo hanno caratterizzato, da pochi giorni il Digital Markets Act (DMA) è divenuto operativo.

Questa nuova regolamentazione approvata dall’Europarlamento si propone di migliorare la competitività e la concorrenza, nonostante nel trattato di costituzione dell’Unione Europea vi fossero già diversi articoli in proposito e la commissione antitrust godesse di un enorme potere discrezionale (era lei che decideva autonomamente se un’azienda fosse meritevole di accertamenti ed eventualmente di sanzioni).

Enorme potere che ero dovuto sostanzialmente all’assoluta assenza di criteri che consentissero di stabilire in maniera precisa, puntuale, e soprattutto prevedibile se una determinata azienda fosse in posizione dominante e in che misura potesse aver commesso degli abusi passibili di condanne.

Tutto ciò era stabilito motu proprio dalla suddetta commissione qualora i suoi membri avessero riscontrato delle presunte irregolarità. Le aziende, insomma, non hanno mai avuto la possibilità di conoscere in anticipo (in maniera prevedibile, per l’appunto), dunque durante il loro normalissimo e quotidiano operare, le loro condizioni ed eventualmente se queste potessero creare problemi di sorta. Non esistono, infatti delle precise misure / metriche che definiscano esattamente lo status di un’azienda: tutto rimane esclusivamente nelle mani della commissione. In sintesi: la certezza del diritto, che dovrebbe essere a fondamento di una società civile e garantista, non esiste in materia di concorrenza.

E’ da questa situazione di assoluta incertezza (per le aziende) che sono scaturite indagini e atti che hanno reso famosa la commissione, come ad esempio le condanne inflitte a Microsoft e Intel (sebbene di recente siano state annullate da altri tribunali).

Nonostante quest’enorme potere la commissione si è, però, incredibilmente trovata in difficoltà nel poter gestire casi come quello di Apple, che nell’UE non risulta in alcuna posizione che potrebbe definirsi anche lontanamente come dominante in ambito di dispositivi mobili. La stragrande maggioranza, infatti, fa capo alle aziende che vendono telefonino o tablet basati su piattaforma Android.

L’idea malsana che è venuta da fuori da alcuni, e in particolare dalla presidentessa della commissione antitrust europea (che l’ha esplicitato senza mezzi termini), è quella di considerare Apple in posizione monopolista perché è l’unica… a vendere dispositivi su cui gira la sua piattaforma iOS.

Un’evidente assurdità anche soltanto a pensare una cosa del genere: è come considerare Ferrari, Lamborghini, BMW, ecc., monopoliste a causa delle piattaforme proprietarie su cui basano i sistemi di infotainment da loro stessi sviluppati (alcuni dei quali consentono anche l’integrazione di applicazioni di terze parti).

L’assurdità deriva da fatto di voler cambiare artificialmente il mercato di riferimento, spostandolo da quello dei dispositivi mobili (nel quale operano parecchi concorrenti) a quello della piattaforma da loro utilizzata (che, di fatto, implica la creazione di una moltitudine di monopoli: uno per ogni sotto-mercato che è stato creato). Un assoluto non senso, insomma.

Tutta questa lunga premessa è stata necessaria per costruire il contesto in cui nasce il DMA e, soprattutto, per comprendere contro chi è stato appositamente pensato.

La prima, grande e illustre vittima non può che essere la già citata Apple, la quale è ben nota per aver creato un ecosistema estremamente profittevole, ma completamente chiuso e sotto il suo assoluto controllo. In particolare il suo Store le garantisce un enorme flusso di denaro che da parecchio tempo fa gola ad altri produttori di software (Epic in primis) o servizi (uno a caso: Spotify) che non vogliono pagare la relativa quota che la casa della mela morsicata esige per gli acquisti effettuati sulla sua piattaforma (in genere il 30%), e che hanno già prodotto alcune cause o richieste alle autorità antitrust di alcuni paesi.

Non avendo quote di mercato dominanti in Europa, appare evidente che, pur con tutto il potere e la discrezionalità che possiedono, le autorità antitrust europee non possono accampare alcuna scusa per sanzionare Apple e pretendere l’apertura del suo store ad altre aziende distributrici di software: le loro sentenze verrebbero impugnate e molto probabilmente farebbero la stessa fine di quelle inflitte a Microsoft e Intel.

Le autorità avevano, quindi, bisogno di nuovi strumenti legislativi da poter utilizzare per randellare Apple et similia, ed è il motivo per cui è stato elaborato e infine introdotto il famigerato Digital Markets Act, il quale ha definito il concetto di gatekeeper con maglie molto più lasche proprio per renderlo applicabile anche ad aziende che non hanno dimensioni tali da poter essere considerate dominanti.

Dettagli e spiegazioni su tali criteri sono già stati ampiamente pubblicati su altri media (anche generalisti), per cui non mi ci soffermerò, ma è importante sottolineare che con questa nuova normativa Apple rientri ovviamente nella definizione di gatekeeper, come pure Google, Microsoft, e altre aziende che mettono a disposizione un app store per la distribuzione di applicazioni, ma anche Amazon e il suo negozio di vendite online.

Potrebbe sembrare ridondante per Google, in quanto la stragrande maggioranza dei dispositivi mobili venduti fa uso della sua piattaforma Android. In realtà bisogna considerare alcune cose.

Intanto che Google produce, col proprio marchio, soltanto una piccola parte di tali dispositivi, dunque non è assolutamente imputabile di operare in regime di posizione dominante.

Secondo, ma molto più importante, è il fatto che la sua piattaforma Android è completamente aperta (open source e libera da vincoli di utilizzo). Dunque qualunque produttore di telefonini, tablet, ecc., può tranquillamente realizzare dispositivi che facciano uso di tale piattaforma software, senza nemmeno dover chiedere il permesso a Google (se non per il marchio registrato. Ma ne può fare a meno, se il marchio non interessa: vedi Amazon col suo FireOS, che è un fork di Android). Dunque c’è piena, assoluta concorrenza in quest’ambito.

Il pomo della discordia è, però, rappresentato dai software proprietari di Google (e in particolare del suo Playstore), per i quali si deve necessariamente stabilire un contratto con quest’azienda, alle sue condizioni (ovviamente anche economiche), per poterli rendere disponibili nei propri dispositivi.

Inutile dire che sono proprio queste applicazioni e servizi che rappresentano il piatto forte della piattaforma Android. Sostanzialmente Google rappresenta per il mercato mobile quello che Microsoft ha rappresentato per quello PC in termini di piattaforma offerta all’utenza, ma con la sostanziale differenza che l’intero s.o. e parecchie librerie sono completamente gratuite e usufruibili da tutti.

Col DMA le autorità antitrust europee hanno risolto il problema che avevano con Google, perché basterà loro puntare l’attenzione sul pacchetto software proprietario per far rientrare l’azienda nei canoni delle nuove norme e, quindi, applicare sanzioni e costringerla ad aprire il suo store ad altri distributori di applicazioni.

Risulta, infine, necessario un brevissimo excursus storico prima di poter arrivare alla tesi esposta nel titolo dell’articolo. E’, infatti, di fondamentale importanza riportare lo status del mercato dei dispositivi mobili, e in particolare dei telefonini / smartphone, prima dell’entrata in campo di Apple e poi di Google. Mercati sostanzialmente in mano di Nokia (leader assoluto), Samsung, LG, ecc. per i telefonini e a Palm, Microsoft, Blackberry per palmari et similia.

È in questo contesto che una novella (in questi mercati, all’epoca. Ma senza dimenticare il suo Newton: antesignano, forse troppo precoce, dei dispositivi mobili avanzati) Apple arriva col suo iPhone, prima esperienza assoluta nel campo dei telefonini “intelligenti” (poi divenuti smartphone) e senza nemmeno il suo store, tanto da meritarsi gli sberleffi degli allora leader di mercato (con Steve Ballmer di Microsoft in prima linea).

Sorte praticamente simile per l’Android di Google, che arriva sul mercato un anno dopo l’iPhone e anch’esso senza il suo store.

Eppure entrambi hanno, pian piano, macinato successi dopo successi, arrivando a diventare leader di mercato e sostanzialmente sotterrando i pionieri nonché dominatori dell’epoca, specialmente con l’introduzione del suo store per Apple, a cui tutti, inclusa Google e poi Microsoft e anche altri (Samsung, Huawei).

Successi meritatissimi perché frutto di visioni che hanno completamente rivoluzionato il mercato dei dispositivi mobili rendendo tale tecnologia fruibile a tutti: dagli infanti fino ai nonni. Successi che hanno richiesto investimenti rischiosi, considerato che prodotti innovativi non è affatto detto che possano prendere piede e ripagare dei capitali messi sul piatto.

Ma, soprattutto, successi che sono arrivati per l’intrinseca bontà dei prodotti e non per macchinazioni anticoncorrenziali: queste aziende sono partite con zero clienti e adesso ne contano centinaia di milioni o anche miliardi proprio grazie all’azzeccata strategia che è stata messo in atto in primis da Apple (che ha fatto scuola), per essere poi pedissequamente copiata da Google (che ha subito intuito il potenziale delle trovate della casa della mela morsicata e di quel genio visionario che era Steve Jobs), e infine da tutti gli altri (con Microsoft in colpevole ritardo).

E’ soltanto a posteriori di tale successo che aziende come Epic, Spotify, Netflix, ecc. s’inseriscono e pretendono di voler mettere le mani sulla succulenta torta dei profitti generati dagli app store dei colossi già citati.

Non lo fanno costruendo a loro volta ecosistemi come quelli iOS e Android, visto che hanno certamente la possibilità di realizzarli (perfino usando Android base che, come già detto, è una piattaforma aperta e liberamente utilizzabile). No: pretendono di utilizzare le piattaforme già esistenti e belle e pronte, senza sobbarcarsene gli oneri e il rischio d’impresa delle aziende che le hanno messe in piedi (e che, giustamente, ne stanno traendo beneficio).

Da qui nasce, per l’appunto, il grimaldello del DMA, considerato che l’ordinaria legislazione in materia di concorrenza molto difficilmente avrebbe consentito alle autorità antitrust europee di poter intervenire. Soprattutto considerando che lo store più redditizio in assoluto rimane quello di Apple, che in Europa è ben lungi dall’essere in posizione dominante.

Il DMA rappresenta, dunque, lo strumento che l’UE ha tirato fuori per costringere chi ha investito e ha avuto successo a dover far partecipe anche altri di tali successo. Altri che non hanno messo mani al portafogli. Altri che non hanno mai rischiato.

Il DMA nasce, quindi, come strumento per punire chi ha avuto successo, mascherando il tutto sotto l’egida della bandiera della presunta concorrenza mancante. E certificando, di fatto, l’incompetenza sia dei legislatori europei sia delle autorità antitrust, che sono dovuti ricorrere a questi mezzucci per imporre una concorrenza non necessaria e, anzi, assolutamente liberticida e ingiusta nei confronti di chi ha dimostrato coi fatti di aver saputo fare bene.

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