Quando la rete si pagava

A tutti coloro che alla fine di luglio non sono ancora alle prese con ombrelloni, sdraio e lettini, in questo nuovo venerdì dedicato ai nostalgici dell’informatica che fu, oggi desidero proporre un’interpretazione atipica del nostro appuntamento settimanale.

Credendo molto nelle lezioni della storia come chiave di lettura del presente – e a volte del futuro – vorrei individuare quello che, a mio parere, rappresenta un passaggio cruciale nella storia della rete relativamente all’annoso tema dei contenuti.

Il titolo di questo pezzo avrà lasciato perplesso qualcuno, che magari si sarà chiesto: “ma come, la rete non si paga già?”. Una domanda estremamente appropriata, che ci porta dritti dritti al tema di oggi.

Molto prima che il World Wide Web venisse concepito, alcune funzioni essenziali erogabili da una rete di computer erano già pienamente operative: e-mail, time sharing commerciale (una sorta di cloud computing ante litteram), scambio file, forum di discussione, finanche la messaggistica istantanea.

Oltre che dal marasma di università, centri di ricerca, privati cittadini e piccole aziende al comando di BBS, queste funzioni, o un sottoinsieme di esse, venivano erogate al pubblico da aziende di medio/grande dimensione, il cui core asset era per l’appunto una rete proprietaria. Una rete che, tramite software e protocolli sviluppati ad hoc, rappresentava a tutti gli effetti un microcosmo.

Gli “abitanti” di ciascun microcosmo erano in relazione fra loro ma chiusi alla possibilità di interagire con utenti di altre reti. La relativa numerosità della base utente di ogni comunità, l’enorme (rispetto al panorama mediatico esistente) varietà di contenuti, spazi di discussione e servizi di comunicazione interpersonali disponibili già nei primi anni ’80, bastavano infatti – almeno negli USA – per vedere in questi servizi the start of the information age – definizione di Isaac Asimov al lancio del servizio online The Source.

Centinaia di migliaia di utenti americani, già negli anni ’80, assieme al quotidiano e al canone per la TV via cavo, pagavano un abbonamento a Compuserve o The Source per accedere a tutti questi servizi online, oltre a sobbarcarsi i costi a tempo per la connessione dial-up.

In una prospettiva storica, l’arrivo del WWW, la rete delle reti in cui ogni “microcosmo” poteva confluire interconnettendosi e rendendosi più o meno interoperabile, rappresentò nei primi anni ’90 un cambio di paradigma enorme.

Per un’azienda come Compuserve, all’epoca già un colosso con molte centinaia di migliaia di utenti, il WWW rappresentò da subito un dilemma: rimanerne fuori, scommettendo sulla sua futura irrilevanza? O piuttosto scegliere di confluirvi progressivamente? Ma con quale strategia, con quale prospettiva economica? Malgrado tutte le incertezze, fu preferita la strategia di una progressiva confluenza e, nel 1997 Compuserve iniziò migrando i suoi forum in HTML.

L’idea era quella di far leva sull’enorme popolarità del marchio Compuserve per rendere il servizio “un gateway di accesso alla rete Internet” (come recitava la home page del sito nella seconda metà degli anni ’90) e dirottare parte dell’utenza verso servizi premium che la piattaforma storicamente era in grado di erogare.

L’ambizione di Compuserve e aziende analoghe era dunque quella di, quanto più possibile, “essere Internet” ossia concentrare tutto il meglio della rete in un contenitore più o meno recintato e, soprattutto, in parte remunerato – un paradigma questo che abbiamo in seguito avuto modo di osservare col boom dei portali generalisti, prima che il search li spazzasse via.

Questo passaggio avvenne tuttavia a spese di uno sconvolgimento del modello di business e di una revisione al ribasso delle aspettative di guadagno, a fronte di un “calderone Internet” che cresceva a ritmi multipli, attirando masse enormi di utenti, complice un’onda anomala di hype mediatico.

Uno dei problemi più significativi del Web della prima ora, non estraneo alla sua natura anarchica e alla sua crescita caotica, era però una patologica sfiducia dell’utenza verso la sicurezza delle transazioni economiche, laddove servizi come Compuserve potevano vantare una ragguardevole esperienza nell’erogazione di servizi a pagamento all’interno delle proprie reti e una posizione privilegiata rispetto agli utenti, già abituati a girarle pagamenti in cambio di servizi.

Quest’ultima considerazione rappresenta un passaggio cruciale nell’evoluzione del WWW e di Internet nel suo complesso: tecnologie nate e cresciute dietro ai nobili principi dell’accessibilità dell’informazione, della rottura dei presupposti filosofici e tecnologici del broadcast, dell’interconnessione dei centri di conoscenza, della condivisione della cultura, ma intrinsecamente poco vocate alla creazione di valore.

Se infatti all’alba del Web i servizi di Compuserve non potevano vantare su contenuti e servizi Web – in cui confluiva ogni anno un numero vertiginoso di operatori professionali – una superiorità in termini di qualità e varietà, la rete imponeva il peso dei suoi numeri e della sua crescita senza offrire in cambio una prospettiva concreta di sostenibilità economica. Come supporre che la mancanza di sostenibilità economica non avrebbe un giorno influenzato la qualità complessiva della rete libera e gratuita?

La perdurante latitanza della sostenibilità economica, la sperimentazione di modelli di business acrobatici, sancirono in effetti un fondamentale “corollario” della rete: quell’abitudine generale dell’utenza alla gratuità, rimasta indenne – a differenza dei conti di molte aziende e dei sogni di molti visionari della prima ora – alla bolla della new economy.

Del cambiamento di scenario imposto dal Web, il declino di Compuserve & affini è dunque un simbolo. Il simbolo della fine dell’epoca in cui i contenuti rappresentavano un costo distinto rispetto alla connettività. Un passaggio da cui consegue direttamente un decennio di tutto gratis e, a seguire, la via tutta in salita di ritorno a forme di remunerazione diretta per chi produce contenuti.

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