Cannon Fodder, il lato comico della guerra

C’era una volta un’epoca in cui Amiga significava lo stato dell’arte dei computer e il Workbench era più famoso di Windows.

In quel tempo i giochi entravano in uno o due floppy da 1,44MB, la Apple procedeva a grandi passi verso la bancarotta e George Bush Jr. non aveva ancora deliziato il mondo con la sua folgorante intelligenza geopolitica.

Fra tante differenze, c’era e c’è qualcosa che due decenni non hanno cambiato. Il senso dell’umorismo dei genitori rispetto a giochi violenti, da sempre pari a zero, spesso nella più totale incomprensione del fenomeno.

Dietro questa affermazione non c’è la volontà di “amnistiare” per qualunque audience atti di violenza gratuita simulata su computer o console, ai danni di soggetti deboli. C’è solo la convinzione che ogni questione vada valutata nel contesto e che atteggiamenti proibizionistici, specie quando poggiati su posizioni preconcette e mal informate, non abbiano né abbiano mai avuto alcun effetto formativo.

Tanto più se cavalcate da certo moralismo di maniera con cui i mass media riempiono gli spazi lasciati vuoti da TG sanguinolenti e varietà di una volgarità disarmante, e di cui tanti soloni negli anni si sono riempiti la bocca contro questo o quell’atteggiamento antisociale potenzialmente conseguente dall’uso di un dispositivo elettronico.

Prova lampante di questo atteggiamento è l’accoglienza riservata dai media a quello che, allora come oggi, rappresenta uno dei più esilaranti e “pacifisti” war games di sempre: Cannon Fodder, che tradotto in italiano suona un po’ come “carne da cannone”.

Uscito nel 1992 per Amiga (quindi portato su una pletora di altri computer e console) e sviluppato dalla Sensible Software del famosissimo Sensible Soccer, Cannon Fodder è uno shoot ‘em up con prospettiva dall’alto, in cui al giocatore tocca comandare squadriglie di soldati e svolgere missioni di difficoltà progressiva, nei più disparati scenari.

Come in ogni shoot ‘em up che si rispetti, una delle parti più croccanti del gioco, è la possibilità di utilizzare armi sempre più devastanti, capaci di abbattere in un sol colpo la maggior parte degli oggetti che ci si parino davanti, ma anche la disponibilità dei più disparati mezzi per portare a termine la missione.

Le missioni si dividono in approssimativamente in sette macrocategorie: sterminio di tutti i nemici presenti in una determinata area, distruzione di interi edifici o fabbriche , salvataggio di ostaggi, rapimento di leader avversari, protezione di civili e scorta degli stessi in un posto sicuro.

Ciò che in Cannon Fodder genera immediatamente dipendenza è il gameplay assolutamente lineare e il livello di difficoltà, che si evolve seguendo una curva di apprendimento molto accessibile.

Presa confidenza con il sistema di gioco, il giocatore si ritrova presto ad affrontare missioni apparentemente impossibili, attraverso un processo di tentativi ed errori che si conclude con una sensazione che coloro che l’hanno giocato conoscono bene: quell'”illuminazione geniale” ed improvvisa che in due mosse porta alla risoluzione di uno scenario ritenuto fino al minuto prima indecifrabile.

La possibilità di dividere la squadriglia ed assegnare ciascun gruppo a difesa, imboscamento o attacco, aggiunge uno spessore assolutamente gratificante mano a mano che gli scenari si evolvono.

La resa piuttosto cruenta delle uccisioni, la macabra trasformazione delle squadriglie di soldati in lapidi nella schermata fra un quadro e l’altro, non oscurano l’accento fondamentalmente ironico che gli sviluppatori della Sensible hanno attribuito al gioco.

A partire dalla traccia digitalizzata con cui si apre l’intro del gioco, che poi è anche la tagline del titolo: War has never been so much fun, la guerra non è mai stata così divertente.

Ed è proprio così: raramente in un videogioco di guerra (mi viene in mente North&South, altro titolo di cui prima o poi parleremo), la carica violenta è stata così accuratamente disinnescata e resa innocua.

Ed è così che, malgrado pomeriggi interi persi davanti a Cannon Fodder, magari sfuggendo al controllo zelante dei genitori, tanti ragazzini degli anni ’90 sono diventati impiegati, liberi professionisti, precari o disoccupati ma non serial killer, come certa classe intellettuale troppo incline a scambiare le cause con gli effetti, dava per scontato.

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