Google dice no all’open source

Non v’è dubbio che, quando si parla di Google, il pensiero degli appassionati di informatica si volge immediatamente nella direzione dell’open source.

Parecchi, infatti, sono i suoi contributi alla comunità, con progetti fra i più disparati realizzati da questa multinazionale e rilasciati sotto l’ombrello di una delle licenze OSI, ma anche di carattere meramente economico, sovvenzionando progetti già esistenti, oppure bandendo dei concorsi (come il famoso Summer of Code), o ancora come sponsor di manifestazioni open source (come le famose PyCon di cui abbiamo già parlato su Appunti Digitali).

Non ultimo e di grandissima importanza è Android, che mira a inserirsi, a buon titolo, nel mercato dei telefonini e degli smartphone. Eppure proprio da questo progetto arriva dal colosso di Mountain View una levata di scudi nei confronti delle personalizzazioni che da un po’ di tempo circolano…

Google Logo

Android, come si sa, è un progetto open source, ormai abbastanza maturo e che in questo periodo risulta spesso sotto i riflettori, con proiezioni ottimistiche e addirittura entusiastiche che lo danno già per il sistema dominante nei dispositivi mobile fra qualche anno.

Scontato, quindi, l’interesse sia di multinazionali blasonate (fortemente attratte dal parecchio lavoro che ci sta dietro, e che permetterebbe di abbattere i costi dei loro prodotti), ma anche di singoli individui che possono prelevare sorgenti ed SDK per poterci smanettare realizzando qualcosa che potrebbe dargli fama, e magari qualche soldino.

Con queste premesse non sono tardate ad arrivare delle modifiche al progetto originale, spuntate come funghi, che hanno permesso di aggiungere nuove funzionalità, migliorare quelle esistenti, o anche semplicemente cambiare aspetto o disposizione ad alcuni elementi dell’interfaccia grafica.

Per cui tutto andrebbe per il meglio: Android non avrebbe che da guadagnarci, perché la piattaforma diventa più matura, più solida e, di conseguenza, anche molto più competitiva, sempre più attraente sia per i produttori di aggeggi mobili che per gli utenti finali; quindi anche più diffusa.

Incredibile a dirsi, ma non è dello stesso parere Google che ha bloccato, con un’ingiunzione agli autori, alcune modifiche non autorizzate. Per essere precisi, l’oggetto del contendere sono state le famose Google Apps, che erano state incluse in una modifica di Android chiamata CyanogenMod.

Come spiega uno sviluppatore di BigG dal blog ufficiale, Android è stato, sì, realizzato come progetto open source, ma non lo sono le Google Apps, di cui la casa madre rimane l’unica titolare dei diritti di distribuzione, ed è anche l’unica che ha in mano i sorgenti (soltanto i “binari” vengono distribuiti).

Le Google Apps rappresentano, in sostanza, il valore aggiunto che Google vuole giocarsi in esclusiva su Android, similmente a come faranno altre aziende che includeranno proprie applicazioni nelle loro versioni di Android.

Quindi la piattaforma base / comune, va benissimo, ma le modifiche sono personali, e Google stringerà accordi per la distribuzione delle sue famose Apps (che, per queste ragioni, non sono nemmeno presenti nel repository del progetto principale).

Con tutto l’impegno profuso nei confronti dell’open source, questa presa di posizione sembra assurda. Per lo meno strana, o in controtendenza. Magari potrebbe anche passare come un caso isolato, ma non lo è: sono diversi i progetti di cui non ha rilasciato i sorgenti, e che probabilmente non farà mai.

Un altro esempio lo troviamo con Google Code, nella cui FAQ è possibile leggere che il codice del portale non è interamente open source, ma sono presenti parti proprietarie sviluppate dalla stessa azienda.

Alla PyCon2 dello scorso anno c’è stato anche un talk di Brian Fitzpatrick, e nella sessione di Q & A (domande e risposte) ho chiesto appositamente perché Google non rilasciasse tutti i sorgenti. Potete ascoltare le mie due domande fra il minuto 48:00 e 51:38, ma le risposte sono sempre di circostanza: Google ha fatto molto, investe molto e crede molto nell’open source, e nello specifico se il codice JavaScript del suo sito di ricerca risulta offuscato è perché per loro “ogni byte conta”. Ma non rilascia tutto il codice, come avevo chiesto e sottolineato.

Come darle torto? Secondo voi dovrebbe essere così stupida da rilasciare l’algoritmo di indicizzazione e ricerca che ha sviluppato in questi anni e che l’ha fatta diventare leader incontrastata del mercato? Sarebbe pura follia nonché un clamoroso autogol, perché i suoi concorrenti, Microsoft in testa, ne approfitterebbero subito per migliorare i propri strumenti e farle una guerra spietata.

Non bisogna dimenticare, infatti, che questa multinazionale, per quanto abbia fatto molto per la comunità, rimane pur sempre un’azienda votata al lucro, che ricerca continuamente nuovi mercati e possibilità di guadagno (anche se la pubblicità rimane il suo core business).

E’, pertanto, fuor di dubbio che Google non rilascerà tanto prezioso codice che tiene gelosamente conservato nelle sue casseforti, perché ha fatto, fa, e continuerà a fare la sua fortuna. Google Apps incluse, e ha ben poco di che lagnarsi lo sviluppatore di CyanogenMod, perché BigG sta semplicemente tutelando i suoi interessi: è nel suo pieno diritto farlo.

Il suo contributo all’open source non è, e non dev’essere messo in discussione, come non lo devono essere le sue decisioni di mantenere certi prodotti e codice fuori dalla portata di tutti. Perché Google deve produrre utili, e i suoi dipendenti devono portare il pane a casa. Coi soli ideali, per quanto nobili possano essere, non si campa la famiglia

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