Un piano per dire addio al motore a scoppio

L’ho sparata grossa vero? Beh, prima di iniziare a ridere considerate che il signor Agassi, quello che ha messo in piedi il piano di cui sto per parlarvi, era sul punto di diventare CEO di SAP. Ha quindi deciso di rassegnare le dimissioni, per dedicarsi al progetto Better Place, di cui vi racconterò sommariamente fra un minuto. Passata la ridarella?

Sorvolo sugli aspetti biografici del buon Agassi, per i quali vi rinvio al lungo e approfondito articolo su Wired, per andare dritto al sodo: far luce sul modello energetico delineato dall’iniziativa Better Place, anticipata mesi fa da un post di Enrico.

Che le auto elettriche rappresentino un’ottima soluzione per il problema dell’inquinamento è risaputo da decenni. Come conciliare le abitudini degli automobilisti con le problematiche di autonomia e ricarica delle batterie è il problema principale di tutti coloro che si sono cimentati con l’idea di sostituire il motore a scoppio.

Non a caso l’idea di Agassi è rivolta primariamente alla costruzione di un’infrastruttura che agevoli l’uso di auto elettriche nella normale routine quotidiana. Oltre alla realizzazione di impianti per la ricarica delle batterie, Agassi intende realizzare stazioni per il cambio rapido della propria batteria con una completamente carica.

Il tutto finanziato tramite un modello di remunerazione innovativo:

da un lato massicci investimenti degli stati, compensati dalle eccellenti economie derivanti dall’allentamento della dipendenza dal petrolio. Dal lato utente i costi riguardano la vettura e un piano tariffario a consumo, di costo proporzionale ai chilometri percorsi. Per i piani di alto consumo o illimitati, è ipotizzabile la fornitura dell’auto a costo zero.

L’autovettura vera è propria, non è dunque altro che una normale auto elettrica, con installati hardware e software per la gestione energetica e dei rifornimenti – le sinergie con sistemi GPS sono facilmente immaginabili. Quello che di speciale c’è attorno sono le infrastrutture.

Un’altra particolarità del modello di business è che non sottrae spazio alle aziende che producono autovetture: il nocciolo della questione è in realtà il rapporto sinergico fra infrastruttura, compresa la proprietà delle batterie, e autoveicoli. Immaginiamo un parallelo con la telefonia cellulare: un operatore telefonico non costruisce telefoni, al limite li vende col proprio marchio o li regala ai clienti che spendono di più in telefonate.

Lo sforzo tecnologico richiesto all’industria automotive è dunque quello di convertirsi all’auto elettrica, con un ragionevole grado di standardizzazione, in modo da rendere i propri veicoli interfacciabili con l’infrastruttura energetica in fase di realizzazione. All’infrastruttura, il cui business a regime consiste, per sommi capi, nella compravendita di energia e nelle attività tecniche correlate (stoccaggio, acquisto batterie, apparecchiature di carica, etc.), il ruolo di sfruttare al meglio le fonti energetiche disponibili, valorizzando, come nel caso Danese, le rinnovabili.

L’alimentazione di questo ciclo tramite energia generata da combustibili fossili, sarebbe comunque, secondo gli ideatori dell’iniziativa, in grado di fornire un impatto positivo sulla CO2 immessa nell’atmosfera dal parco auto attualmente circolante.

Attorno all’iniziativa sta da tempo concentrandosi l’interesse dell’industria automobilistica – Nissan-Renault è già attivamente coinvolta, della politica e della finanza. Israele e Danimarca, nazioni piccole in cui il chilometraggio annuo medio è basso, fungeranno da “beta tester” della tecnologia, agendo in contemporanea sul fronte infrastrutturale e sulla detassazione dei veicoli elettrici.

Negli USA il governo federale si è defilato, ma restano aperte le trattative con alcune grandi città, che tra l’altro – analogamente a Danimarca ed Israele – presentano condizioni d’uso più compatibili con la fase iniziale del progetto.

Fonte: Wired

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