Da Linux ad Android, cosa si perde e cosa si guadagna

Leggendo i commenti al mio precedente pezzo circa il futuro di Linux sono emersi alcuni punti di vista che mi inducono ad un  chiarimento. Per chi avesse perso la puntata precedente, la sintesi è: Linux sul desktop ha fallito la sfida di conquistare quote di mercato all’OS dominante, e in tempi di mobile il quadro è ulteriormente fosco. Com’era dopotutto prevedibile, molti lettori mi hanno segnalato l’esistenza di Android, un OS che ha molto in comune con Linux.

È proprio su quest’argomento che verte questo mio secondo pezzo di chiarimento. Per mia inclinazione trovo abbastanza sterili questioni troppo di fino sui nomi ma credo che qualche parola vada spesa per chiarire quello che reputo il maggior fraintendimento del precedente articolo.

So che mi esprimo su una questione controversa, ma non sparate sul pianista: come alcune vostre riflessioni hanno aiutato me a porre in contesto le mie convinzioni, magari anche questo pezzo – e la discussione che ne seguirà – può rappresentare un’occasione per testare le vostre convinzioni e affinare le vostre opinioni. È anche possibile che ognuno resti della sua idea, il che in una società civile non implica perdere il rispetto reciproco.

Veniamo a noi. Dopo la lettura di alcuni commenti, una domanda ha iniziato a ronzarmi per la testa: quel Linux che molti si auguravano potesse sconfiggere l’impero del male con sede legale a Redmond e succursale a Cupertino, era il kernel? Torneremo su questa domanda al termine del pezzo. Intanto vado oltre e cerco di assumere il punto di vista di un integralista dell’open source: quando sognavamo il trionfo di Linux, era ad un sistema semi-chiuso come Android che pensavamo?

Personalmente non mi considero un integralista di alcuna causa legata alla tecnologia, dunque valuto la questione molto pragmaticamente. Vi anticipo le conclusioni del mio ragionamento: Android è il primo derivato di Linux di successo proprio perché si spoglia di alcuni gravami ideologici che hanno ostacolato il successo commerciale di tutto ciò che abbiamo chiamato Linux fino ad oggi. Il Linux la cui fine nel mercato consumer profetizzavo ieri, commettendo la leggerezza di non delimitare l’oggetto della discussione, è quel Linux che ha ancora – malgrado qualche tardivo spunto di miglioramento – forti gravami ideologici, che gli impediranno di ottenere su tablet un successo superiore a quello ottenuto sul desktop, a causa dell’incapacità sistematica di generare delle economie sostenibili. Economie con le quali, nel ventunesimo secolo, si finanziano ineludibili partnership con produttori hardware, si alimenta la domanda, si costruisce una community di sviluppatori professionisti, si finanzia l’innovazione.

Dunque accolgo l’obiezione di chi diceva che il titolo del pezzo di ieri è sbagliato, ma con riferimento a quel che possiamo definire Linux e non alla distinzione desktop/tablet: ribadisco – non che questo aspetto esaurisca il problema – che le economie che ruotano attorno a Canonical – come a qualunque altra distro consumer – sono ridicole a fronte delle barriere d’ingresso che il mercato tablet presenta e ancor più presenterà nel 2014.

Questo non esclude che nel 2014 l’efficienza energetica e la standardizzazione dell’hardware mobile avrà raggiunto un livello tale da consentire di installare qualunque OS su qualunque hardware. Rimane però da dimostrare a quanta parte dell’utenza interesserebbe un’opzione del genere.

Veniamo ad Android che, ripeto, valuto esclusivamente in ottica commerciale: in tal senso mi interessa sottolineare alcune ben note differenze fra una qualsiasi distro Linux e Android, per rimarcarne il valore nell’affermazione commerciale dell’OS di Google.

Innanzitutto Android, nella sua declinazione pratica, non si può aggiornare a proprio piacimento laddove ciò che finora abbiamo definito “distro” rappresenta il luogo per eccellenza in cui ogni componente SW può essere personalizzato e aggiornato a proprio piacimento. In Android al contrario gli aggiornamenti sono stabiliti dal produttore dell’hardware. Si tratta di un inedito nel “tradizionale” mondo Linux, che limita la libertà dell’utente in cambio di una maggior stabilità e integrazione con l’hardware – e lo salva dal cadere nella trappola delle specifiche tecniche (che CPU ha il mio telefono? quanta RAM? come ci girerà ICS?). Dalla discrezionalità dell’OEM risulta una notevole frammentazione dell’installato, ma complessivamente il modello risulta più di ogni altro funzionale alla vocazione maggioritaria che Google ha instillato in Android.

In secundis il codice sorgente di una data versione di Android è solitamente rilasciato – con l’eccezione di Honeycomb – appena il primo dispositivo che lo adotta arriva sul mercato. In altre parole lo sviluppo avviene a porte chiuse, come si conviene ad un progetto di natura economica. Il problema che lamentano alcune terze parti consiste nel fatto che l’accesso preventivo al codice – necessario per l’ottimizzazione del dispositivo – richiede una partnership con Google, e che comunque la decisione di rilasciare o meno il sorgente è unilateralmente in mano a Google.

Alcuni osservatori critici vedono in Android nient’altro che una leva per affermare tecnologie proprietarie di Google come il search e i servizi di localizzazione (si veda in proposito la disputa Skyhook vs Google). In altre parole Google, in modo non diverso da quanto fa Apple con BSD, userebbe una parte di Linux come trampolino di lancio per i propri servizi. La domanda è: se in quei servizi c’è valore aggiunto, se non insistono problematiche legate a posizioni dominanti, dov’è il problema?

Poi, Android è o non è Open Source? Quale sia la rilevanza di questa diatriba lo lascio a voi. Personalmente trovo un po’ stucchevole se non furbo, il costante riferimento fatto da Google circa l’apertura di Android. Per questo mi trovo a convenire con l’analisi di uno sviluppatore mobile del calibro di Joe Hewitt. Fatte salve le preferenze personali, che rilevanza ha questa domanda se si punta al successo della piattaforma? Direi zero. Non altrettanto per ciò che negli anni ci siamo abituati a chiamare Linux tuttavia.

Arrivo a un ultimo punto, un’obiezione a mio avviso molto pertinente dal punto di vista di chi sostiene Linux come alfiere di un nuovo e più aperto approccio al software: da Android stanno diramando nuovi walled garden, Amazon e Facebook potrebbero essere i primi di una lunga serie, che ancor più si distanziano dall’ispirazione iniziale dell’OS Linux – in cambio di una funzionalità, ivi compresi servizi come l’app store dedicato, accessibile a utenti non smaliziati. Non c’è bisogno di risalire alla storia di Unix, un OS che nasceva con l’intento di unificare un parco hardware frammentato invece che dividerlo, per cogliere la distanza venutasi a creare.

È vero, l’avvicinamento di Linux a logiche commerciali era ampiamente previsto. Il punto è che, mentre questo avvicinamento accelera, il perimetro di Linux cambia. Quello che alcuni sognavano dominasse l’informatica era un OS fatto e finito, gli utenti che si volevano conquistare non necessariamente erano consapevoli del tipo di licenza con cui fosse rilasciato il codice sorgente del kernel, e forse non volevano nemmeno sapere cos’è un kernel.

Oggi a quegli utenti ci si è arrivati, ma non con quello che dieci anni fa chiamavamo Linux. Ci si è arrivati a spese di alcune restrizioni alla libertà assoluta offerta da Linux, in cambio delle quali sono arrivate funzionalità delle quali i pionieri di Linux hanno dovuto storicamente privarsi – tutto ciò che dipende da una corretta implementazione del DRM, un volume impressionante di software commerciale di grande popolarità.

Quello che chiamiamo oggi Linux appare dunque il massimo comune denominatore fra quello che negli anni ’90 si chiamava Linux e Android, la sua miglior evoluzione in ottica commerciale: per l’appunto il Kernel. Questa constatazione ci conduce però a una domanda: quando fra vent’anni la prossima Apple farà la sua fortuna creando valore a partire da questo denominatore comune, quanti ricorderanno ancora cos’è Linux e cosa Linux rappresentava nelle intenzioni di molti di coloro che vi hanno intravisto una leva per scardinare lo status quo del mercato software?

Dunque do ragione ad alcuni commentatori del mio pezzo: dentro la bara di cui parlavo ieri, quella il cui ultimo chiodo è piantato dalla transizione al mobile, riposa non Linux nella sua interezza ma una sua vecchia pelle, quella ideologica, politica e minoritaria. Quella di cui, per semplificare, è portabandiera Stallman. È quella incarnazione dell’OS Linux – libero, personalizzabile, aggiornabile in qualunque sua parte – che nel mercato consumer non ha mai riscosso successo, e che nel mondo mobile non metterà nemmeno piede, se non per produrre oggetti che solo un 1% di appassionati o fanatici del software libero comprerebbe. Il rimanente 99% non gradisce qualunque complicazione ostacoli l’accesso alle funzioni richieste, ed è su quel 99% che, ci piaccia o meno, le priorità di chi sviluppa e vende tecnologia rimarranno focalizzate.

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