Pong e Atari: icone leggendarie dell’industria dei videogiochi

Fino ad ora, a parte qualche piccolo accenno sparso, ci siamo sempre dedicati ad un periodo storico di dieci, quindici anni. Questo perché, in definitiva, rappresenta il periodo di trasformazione più netto dell’industry, dove si sono registrati i maggiori cambiamenti sia dal punto di vista del business e di come il videogioco sia diventato un fenomeno di massa, sia proprio nello sconvolgimento degli scenari: produttori e software house in rapida scesa o dipartite clamorose avvenute per grossolani errori sia in fase di progettazione che marketing.

Il periodo cui abbiamo fatto riferimento, e ne faremo ancora perché la quantità di materiale è esorbitante, comincia grossomodo dalla metà degli anni ’80 fino all’inizio del nuovo millennio.
Ma al di là degli estremi di questo intervallo, c’è ovviamente “dell’altro”. Avremo modo di parlare dei prodotti cronologicamente più vicini a noi e tutto sommato, per il momento, meno interessanti dal punto di vista del retrogaming. Occupiamoci invece di quel che è stato prima.

Senza addentrarci nello specifico (anche perché è mia intenzione parlarne più approfonditamente in un’altra sede), per chi non ne fosse a conoscenza, il videogioco non nasce come prodotto di consumo.
Come buona parte della tecnologia, venne ideata e realizzata grazie alle istituzioni accademiche e  all’esercito.
Il ventennio successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio conseguente della Guerra Fredda vide uno sviluppo embrionale di quel che poi divenne effettivamente il videogame, ovvero un software in grado di espandere le capacità hardware della macchina e simulare determinati (grezzi) scenari di studio o di ingaggi militari.
Gli anni ’70 furono gli anni della consacrazione, grazie soprattutto a due titoli: Pong e Space Invaders.
Tralasciamo il secondo a futura trattazione e concentriamoci sul primo.

I dipartimenti di Informatica, Scienza dell’Informazione o Computer Science (il termine anglosassone rende probabilmente di più dato che i primi furono istituiti proprio negli Stati Uniti e Inghilterra), erano ancora decisamente acerbi. Nati da pochi anni consentirono però agli studenti “smanettoni” e curiosi di utilizzare macchine altrimenti inaccessibili, non solo perché non erano ancora disponibili per il mercato consumer ma soprattutto perché costavano cifre spropositate per il semplice privato.
Inoltre, vantaggio non da poco, le Università più famose utilizzavano ARPANet (futura Internet) per scambiare informazioni quasi fosse una sorta di grande (per estensione) ma piccola (come numero di nodi) rete locale.

Uno studente della Utah University, Nolan Bushnell, deluso dai tentativi dei suoi colleghi continuava a credere nel futuro commerciale dei videogiochi e quindi decise in proprio di rischiare. Nasce così Atari, termine preso in prestito dal gioco giapponese “Go”. Nome curioso ma ancora più curioso rispetto alla prima scelta, tale Sygyzy che però, incredibilmente era già stato utilizzato con tanto di copyright.
Nolan, insieme al suo amico Ted Dabney investono la somma di 500 dollari per le procedure burocratiche e la prima sede nella cittadina californiana di Sunnyvale. Il nome non vi suona nuovo vero?
Non dovrebbe dato che ospita le maggiori compagnie IT della Silicon Valley, tra cui AMD, Nvidia, Palm, Yahoo!, solo per citarne alcune.

Allan Alcorn, fresco di Bachelor in Electrical Engineering and Computer Sciences ottenuto alla University of Berkeley, fu il primo dipendente della società.
Bushnell, a causa della poca esperienza del neoassunto e le limitate risorse hardware dell’epoca, dovette abbandonare l’idea di sviluppare un gioco di guida affidandosi allo sviluppatore con l’unica richiesta di realizzare un gioco dal concept semplice ma allo stesso tempo accattivante.
Dopo  diverse sessioni di brainstorming, il ping pong fu la risposta ritenuta più soddisfacente. Non erano lontani gli anni in cui si sprecavano partite di table tennis al campus ed in fondo portare quell’idea, pur con gli aggiustamenti del caso, era cosa fattibile.
Il suono accattivante della pallina e l’impossibilità di registrare Ping Pong dirottarono il titolo sul solo Pong.

Nel 1973, il primo coin-op ove era stato installato fu messo in un anonimo bar proprio di Sunnyvale, l’Andy’s Capp Bar. Racconta Scott Cohen nel suo celebre libro “Zap! The rise and fall of Atari” che la curiosità ed il divertimento furono così “virali” da rompere la macchina il giorno stesso in cui fu messa in funzione per le troppe monete inserite.
Il successo cambiò le strategie di Bushnell e soci, prima intenzionati a vendere il gioco ad alcuni giganti del settore dell’epoca.

A questo punto l’interesse si era spostato sul mercato casalingo, ancora molto acerbo ma tutto da scoprire e con potenziali grosse fonti di remunerazione. Un brevetto controverso sugli “home videogame” costrinse Atari a venire a patti con Magnavox, produttrice dell’unica vera console disponibile ai tempi, ovvero l’Odissey di cui abbiamo già accennato qualche informazione negli scorsi mesi.
Poiché infatti Alcorn progettò Pong sostanzialmente come una scheda madre cui connettere la televisione, l’idea di rendere il tutto fruibile con un dispositivo stand alone era alla portata degli ingegneri Atari.
Harold Lee che ebbe l’idea venne incaricato di guidare il team per rimpicciolire i componenti in modo da poter essere venduti con un nuovo, più piccolo ed accattivante package, diventando di fatto veri e proprio pionieri nella realizzazione di circuiti integrati su misura per l’elettronica di consumo.

E nel 1975 la dirigenza decise di affidare a Sears, con cui iniziò una fortunata e lunga partnership, la vendita dell’Atari Pong il quale debuttò nel 3 agosto del medesimo anno.
Il resto, come si dice, è storia.

Uno dei giochi più influenti nell’intero panorama video ludico di sempre, tra i più copiati, plagiati ma ancora adesso divertenti e disponibili nelle varie piattaforme di intrattenimento moderne, sia mobili che casalinghe.

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