Quanto davvero è pericoloso il “lifelogging”?

Web 2.0Il 2007 è stato sicuramente l’anno della piena consacrazione e diffusione “di massa” (parlando di popolazione che già accede ad internet) dei social netwotking sites e, più in generale, di vari servizi web che mettono in relazione più utenti tra loro.

Ormai è quindi comune avere molti siti “sociali” cui si partecipa attivamente, ad esempio un profilo su Facebook, foto su Flickr, video su YouTube, microblog su Twitter, segnalibri su Delicious e così via. A chiudere il cerchio magari abbiamo pure un blog, che di fatto si sta trasformando da web-log personale ad aggregatore delle nostre presenze online.

I blog si stanno infatti riempiendo di widget e rimandi vari ai propri profili sparsi sui più disparati social networks, il che di fatto trasforma il ruolo del blog. Se prima tutta la nostra presenza “attiva” sul web era rappresentata dal blog (nel quale scrivevamo, postavamo foto, ecc.) oggi questa attività si è frammentata e spalmata su più siti.

Ciò induce varie riflessioni, a me interessa non tanto interrogarmi sul (nuovo?) ruolo del blog oggi, quanto sulla sempre maggiore difficoltà di controllare il c.d. “lifelogging” che una frammentazione eccessiva produce.

Partecipando attivamente a servizi web come Twitter o Flickr si accetta di rendere pubblica una piccola parte della propria vita che, da sola, non è particolarmente rilevante. Tuttavia se sommiamo tutte le nostre attività in tutti i siti arriviamo ad ottenere una considerevole quantità di informazioni sul nostro conto, un vero e proprio “lifelogging” dunque.

Penso che sarà sempre più difficile gestire questo flusso di informazioni che noi stessi generiamo e decidiamo di rendere pubbliche. Certo, si può sempre scegliere di “tagliare i ponti”, non condividere più nulla e restare isolati. Soluzione miope, a mio avviso, perché se da un lato ci “protegge” da una diffusione eccessiva del nostro “log” quotidiano, dall’altro ci taglia fuori da una serie di opportunità.

Giusto per fare un esempio basta pensare a LinkedIN. In molti settori, come ad esempio quello in cui lavoro io, non avere un profilo su LinkedIN può essere pesantemente discriminante. Di recente mi è capitato di dover compiere delle selezioni e i candidati che avevano blog, foto su Flickr ed altro hanno avuto una posizione certamente privilegiata rispetto al tradizionale CV inviato via email con letterina di presentazione.

Conclusione: evviva i social network ed evviva la condivisione, ma attenzione e buon senso devono sempre essere presenti nel momento in cui si sceglie se e cosa condividere. In particolare è sempre bene pensare alle conseguenze che il pubblicare un contenuto può avere nella propria cerchia di conoscenze.

Press ESC to close