Tecnologia e politica: le aziende occidentali devono adeguarsi alle direttive di Pechino?

Negli ultimi giorni le principali testate di informazione hanno dedicato molto spazio alla diatriba Google-governo cinese dopo che l’azienda americana ha violato la direttiva del governo di Pechino sull’oscuramento di alcune informazioni considerate lesive per la propria popolazione dal regime cinese.

In un contesto, quello tecnologico di oggi, in cui molti utenti si sentono legati ai marchi anche ideologicamente è giusto che le aziende occidentali trasgrediscano ai valori della loro cultura?

In passato, il consenso di un’altra azienda americana, Apple, alle politiche cinesi non è stato apprezzato dagli esperti e dagli utenti Apple che trovarono questa scelta contraria ai valori dell’azienda che da anni si definisce creativa ed utilizza nelle sue campagne pubblicitarie proprio lo slogan “Think different” che, tradotto, vuole dire “Pensa differentemente”. Le aziende, per certi versi, sono da intendersi come i calciatori, hanno un ruolo pubblico e devono seguire dei comportamenti comunemente accettati dalla società.

Ma riassumiamo quello che è successo tra Google e il governo di Pechino. Dopo l’attacco informatico che mirava ad impadronirsi degli account di Gmail, Google lo scorso 13 gennaio ha annunciato che si sarebbe ribellata alla censura che da parecchio tempo impone il Governo Cinese al motore di ricerca e che è intenzionata ad abbandonare la Cina nel caso continui la censura.

Secondo Google, lo scopo primario degli attaccanti era di accedere agli account Gmail degli attivisti per i diritti umani in Cina. In passato Google si era adeguata alle direttive del governo cinese, e quindi aveva oscurato le ricerche che contenevano le parole Tian’anmen, che rinvia a una serie di dimostrazioni guidate da studenti e intellettuali represse nel sangue nel 1989 dal governo cinese, e Dalai Lama, la massima autorità spirituale del Buddhismo tibetano che si oppone all’autorità del regime cinese.

Anche il Governo degli Stati Uniti si è mosso con il Segretario di Stato Hillary Clinton, per avere chiarezza sull’accaduto visto il grave gesto di intrusione nei server di Mountain View e quindi di un’azienda americana. Di fatto, il governo cinese ha riaffermato il suo diritto a controllare strettamente Internet, respingendo di fatto l’ultimatum di Google.

La portavoce del ministero degli esteri Jiang Yu, in una delle regolari conferenze stampa bisettimanali, ha detto che in Cina “Internet è aperta” e che le compagnie straniere “sono le benvenute” su Internet se “agiscono in accordo con la legge”. “Il governo e i media hanno la responsabilità di plasmare l’ opinione pubblica”, ha aggiunto il direttore dell’ufficio stampa del Consiglio di Stato Wang Chen.

In questo momento è possibile in Cina fare le ricerche con Google su Tian’anmen e Dalai Lama. Tuttavia, già dal novembre del 2003 è attivo sul territorio cinese il cosiddetto Great Firewall of China. Questo firewall blocca l’accesso agli IP stranieri selezionati dalle autorità cinesi e blocca alcuni URL.

Il governo cinese lo usa per impedire l’accesso, nei momenti in cui lo ritiene opportuno, anche ai più grandi motori di ricerca, oltre che a Wikipedia e ad altri siti con caratteristiche simili. Quindi il governo cinese può in qualunque momento forzare Google ad abbandonare il paese.

Ma Google può realmente abbandonare definitivamente la Cina? In questo momento è il mercato più ampio per i fornitori di servizi web, visto che conta 300 milioni di persone che hanno quotidianamente accesso alla rete, di più degli stessi Stati Uniti. Inoltre, abbandonare la Cina significherebbe per Google dare via libera al suo diretto rivale, ovvero Microsoft.

D’altronde Google non è sicuramente l’unica azienda americana che si adegua alle direttive cinesi. Apple nella scorsa stagione natalizia ha avviato in Cina la commercializzazione di iPhone, ma ha dovuto rinunciare alla connettività a internet. China Unicom e China Mobile sono i due operatori che offrono iPhone sul territorio cinese, anche se il dispositivo di Apple viene commercializzato a un prezzo più alto rispetto all’occidente.

Per ottenere questo permesso Apple ha dovuto rimuovere dall’App Store tutte le applicazioni che in qualche modo riguardano il Dalai Lama, come Dalai Quotes che raccoglie le citazioni del leader spirituale tibetano o Dalai Lama Paging, un software che identifica i luoghi dove sta insegnando il leader religioso, ma anche altre applicazioni che citano il suo nome solo indirettamente, come Buddhist Dictionary e Nobel Laureates.

Sulla questione è intervenuta anche l’organizzazione internazionale che si occupa di promuovere la libertà di stampa nel mondo Reporter senza Frontiere che, più che la cancellazione delle applicazioni, ha criticato l’impossibilità di accesso ai software sul Dalai Lama imposta dai possessori cinesi dell’iPhone: ricercando “Dalai Lama” nell’App Store, la lista dei risultati è vuota e quindi, non è possibile nemmeno visualizzare a cosa viene negato l’accesso.

Anche Yahoo e Microsoft si sono sempre adeguate alle restrizioni del governo di Pechino. “Abbiamo lanciato Google.cn nel gennaio 2006 ritenendo che i benefici di un aumentato accesso all’informazione per la popolazione cinese e un Internet più aperto bilanciavano il nostro disagio nell’acconsentire a censurare alcuni risultati.

All’epoca avevamo messo in chiaro che controlleremo attentamente le condizioni in Cina, comprese nuove leggi e ulteriori restrizioni ai nostri servizi. Se constateremo di non poter raggiungere gli obiettivi stabiliti non esiteremo a riconsiderare il nostro approccio in Cina“, si legge nel comunicato stampa diramato da Google. Ma il colosso di Mountain View riuscirà a mantenere questa posizione? Quel che è certo è che avvierà delle trattative con il governo locale per cercare di raggiungere un compromesso.

Google attualmente detiene il 65,6% del market share dei motori di ricerca. Ovvero due utenti su tre fanno abitualmente ricerche con Google, preferendolo agli altri motori di ricerca. Lo seguono Yahoo con il 17,5% del market share e Bing con il 10,3%. Un così ampio utilizzo di un unico motore di ricerca compromette in qualche modo il pluralismo nell’informazione?

I motori di ricerca sono basati su un preciso algoritmo per individuare i siti. Questo algoritmo teoricamente può essere “aggiustato” per favorire certi risultati piuttosto che altri. Insomma, è un’altra questione che si inserisce nel dibattito che riguarda da una parte il potere della politica, dall’altra il potere delle grosse aziende che operano all’interno del settore tecnologico.

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