Google vs Procura di Milano: chi decide quando vanno rivelati i dati personali?

La procura di Milano si è recentemente trovata ad aver bisogno di alcuni dati sensibili trasmessi attraverso i servizi messi a disposizione da Google, per indagare su presunte attività illecite. Alla richiesta ha risposto Nicole Wong, vice presidente per gli affari legali della società statunitense, spiegando alla procura milanese che non può di acconsentire alla richiesta, sia perché alcuni dei dati richiesti non sono più presenti nei server, poiché i dati richiesti sono stati rimossi molto tempo fa dai servizi e che Google conserva i dati per soli 30 giorni, in barba alle leggi italiane che prevedono un periodo di 12 mesi, sia perché l’azienda ritiene di non sentirsi obbligata ad obbedire alle richieste del pubblico ministero, definendo la collaborazione con la Giustizia come una scelta da operare a propria discrezione.

L’episodio ha suscitato polemiche e riflessioni su un tema ancora irrisolto ma ampiamente dibattuto che riguarda la cittadinanza di rete, che impedisce agli organi preposti di indagare su dati residenti su server ubicati in altri Stati.

È però interessante cercare di capire quali possono essere le motivazioni del gigante di Mountain View nell’attuazione di una politica apparentemente così ostile nei confronti delle Istituzioni.

Fare un punto della situazione completo richiederebbe ben altri spazi e ben altri argomenti di quelli che esporrò qui. Per arrivare subito al dunque non posso fare altro che premettere (senza lunghe argomentazioni a dimostrazione di ciò) che Google è una compagnia nata, cresciuta e tutt’ora stanziata negli USA, ovvero un Paese decisamente deregolamentato (con le dovute eccezioni chiaramente) in cui la politica è pesantemente influenzata da tutte quelle aziende che possono esercitare una forte influenza economica o che possono avere un grande valore strategico per l’economia.

Situazione che ha maturato una mentalità neoliberista in cui i modelli sociali e morali si impongono alla comunità non solo attraverso la scelta elettorale ma anche con i modelli di consumo che i cittadini decidono di seguire.

La risposta di Google ai PM milanesi può far indignare qualcuno perché arriva insieme al rifiuto di consegnare i dati necessari per procedere contro un grave atto di bullismo in una scuola italiana, ma ha dei fondamenti sia legati a questioni etiche, che all’immagine stessa dell’azienda, che da questa faccenda non potrà che uscirne a testa alta.

Google ci guadagna in immagine perché dimostra che i dati conservati nella propria complessa piattaforma sono al sicuro non solo da malevoli intenzionati, ma anche dallo sguardo vigile della legge. Questo aspetto è molto importante, soprattutto in considerazione del lancio di Google Documents e della piattaforma dedicata all’utenza aziendale che, a patto di riporre totale e completa fiducia nelle infrastrutture del colosso, potrà nascondere dati sensibili anche alle indagini delle forze dell’ordine.

Non è un segreto per nessuno l’ubicazione all’interno dei confini belgi del data center europeo di Google e se proprio il Belgio è stato scelto per il vecchio continente non è certo per il basso costo della manodopera.

Non è la prima volta che Google si scontra con le istituzioni: nel 2006 l’NSA, armata del Patrioct Act varato dal Governo repubblicano e usato sistematicamente per violare la privacy dei propri cittadini anteponendo a questa il pericolo del terrorismo internazionale, chiese ai colossi del web di consegnare i dati di tutti i propri utenti. Google fu l’unica a rifiutarsi (non fu così ad esempio per Microsoft e Yahoo).

Anche qui in Italia, lo scorso Febbraio, Google ebbe modo di scontrarsi, con toni piuttosto diretti tra l’altro, con la rappresentanza parlamentare. Motivo del confronto l’emendamento D’Alia, che non solo voleva dare a un Ministero il potere di oscurare interi siti web (metodo che oltre ad essere incostituzionale storicamente fu utilizzato in molte dittature occidentali per affossare la libertà di espressione) ma che non faceva distinzione tra i contenuti e le piattaforme che li ospitano, di fatto ponendo i grandi gestori costantemente nella morsa del ricatto.

Il problema delle tecnologie telematiche è la facilità con cui i dati di ognuno possono essere, conservati, copiati, indicizzati e incrociati (ma anche cancellati).

Se perseguire chi commette reato si può considerare giusto è vero che il confine tra l’indagine e il controllo non è sempre chiaro e ben definibile. La possibilità di accedere così semplicemente alla vita personale di ognuno è sempre una grande tentazione. È questo il motivo per cui esiste la volontà di preservare la riservatezza dell’individuo e non è un caso che leggi ben definite sul trattamento dei dati siano nate soltanto negli ultimi anni, viste le problematiche introdotte proprio dal progresso tecnologico in questo campo.

Emblematico è però che sia una compagnia privata a difendere la privacy dei propri utenti nei confronti delle Istituzioni, fatto che testimonia uno scarso interesse e una scarsa coscienza del problema sia da parte della rappresentanza parlamentare che dei cittadini.

In Italia, come negli USA e in tanti altri posti, si è legiferato su questo tema qualche anno addietro, convincendo un elettorato che ignorava l’importanza della questione utilizzando l’arma della paura, negli anni in cui si era in costante allarme di possibili attentati terroristici. Ma della riservatezza dei dati non si è ancora discusso abbastanza approfonditamente ma ora che le leggi sono state fatte sembra che nessun opinion leader sia più interessato a tornare sulla questione.

Infine, tornando a parlare di Google vale la pena di notare il contrasto e la doppia faccia di una multinazionale che in occidente non si tira indietro quando deve confrontarsi con le Istituzioni e i poteri forti, mentre per entrare nell’immenso mercato cinese non ha avuto problemi ad assoggettarsi alla censura e ad altre pratiche alle quali qui si dimostra contraria.

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