È giusto pagare per una rivista?

Free beerLa domanda nel titolo, in cui parafraso uno degli ultimi titoli di Cesare, è a mio avviso una di quelle che induce a vivisezionare le abitudini, a togliere la spunta dalla casella “scontato” di un comportamento, attitudine, stile di consumo, a guardare cosa c’è, o c’è rimasto, dietro.

Esprimerò sul tema il mio personale parere, senza alcuna pretesa di esaurire l’argomento. Ogni contributo, come sempre, è gradito.

In estrema sintesi, sono due le “colonne” su cui si poggia la mia decisione di remunerare l’editore di contenuti tecnici: imparzialità e competenza. Sull’imparzialità c’è poco da dire: se il vino è buono non si chiede all’oste, o ai suoi camerieri.

La competenza è un altro fattore cruciale quando si tratti di prendere decisioni su prodotti tecnologici. Già, perché oltre al rimanere aggiornato, in un contenitore tecnico cerco informazioni che mi guidino nell’acquisto, che arricchiscano la mia necessariamente limitata esperienza diretta di prodotti e servizi.

Personalmente, i consigli su materie così specifiche, li accetto solo da gente che ne sa più di me. Descrizioni approssimative, valutazioni prestazionali misurate con stelline, anche quando si tratti di prodotti di elevatissima complessità e costo, rappresentano dunque uno svuotamento totale della recensione da ogni sua utilità.

Dovrei scegliere una DSLR da più di € 1000 basandomi su quante stelline ci sono sotto la voce “funzionalità”?

Dovrei acquistare uno smartphone da 500 Euro perché ha 5 stelline in prestazioni? Non sarà che le stelline sono un buon modo per fare a meno di analisi tecniche e, soprattutto, rappresentano un valore con cui si può più facilmente omaggiare clienti dai ricchi budget pubblicitari? È triste confrontare la banalità di queste considerazioni, alla pratica quotidiana, che ci vede per l’appunto bombardati da stelline e giudizi superficiali.

Competenza e imparzialità per quel che mi riguarda sono dunque indispensabili per giudicare un contenuto degno di esser letto, ancor prima di essere comprato.

Il che mi riporta al punto di partenza, ossia se sia giusto pagare una rivista o qualunque genere di contenuto professionale. Già, perché competenza e imparzialità non crescono sugli alberi. Sono al contrario qualità che un editore deve coltivare, incentivare con investimenti, sostenere con un codice deontologico che blocchi l’accesso a “scorciatoie”.

Da utente che vive e parla con altri utenti, a volte mi capita di osservare che su queste considerazioni si soprassiede facilmente: “finché esisterà un’alternativa gratuita” mi sento dire. Una frase spesso accompagnata da veementi manifestazioni d’insofferenza rispetto alla pubblicità.

Già, ma alla luce di tutte queste considerazioni, in un momento in cui i rubinetti della pubblicità vanno seccandosi, alla vigilia di una possibile, parziale transizione al paid, al freemium, o come diavolo lo vogliamo chiamare, non sarà il caso di iniziare a porsi il problema di come pagano bollette, affitti e stipendi per giornalisti preparati e competenti, coloro che per adesso ci offrono quell’alternativa gratuita?

Da quel che vedo, i gruppi editoriali che ancora campano di sola pubblicità, riuscendo a mantenere alti gli standard qualitativi, rappresentano delle felici eccezioni in un sistema finito ultimamente nell’occhio del ciclone. Fuori dalla rete, c’è un mondo della carta stampata che, malgrado percepisca sovvenzioni, revenue da pubblicità e da edicola, zoppica sotto il peso di costi fissi rigidi e calibrati su un’economia pre-internettiana.

Sull’ultimo vertice di un ipotetico triangolo, c’è tanta informazione non professionale, libera e gratuita, che si vanta di essere tale e punta l’indice su tutto ciò che libero e gratuito non è. Gente che twitta da eventi live all’altro capo del mondo, che ci racconta i nuovi business social free-as-in-beer o quasi, che ci offre recensioni gratuite colme di stelline e punti esclamativi. Basterà la sola gloria a remunerare tanta fatica?

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