Google ha un piano per salvare l’editoria online

google_news_locked.jpgNoi diciamo che la parola inglese “free” racchiude in se due significati: “libero” e “gratis”. In realtà le origini di questa parola, nelle lingue non più parlate, rappresentano amore e amicizia, quindi condivisione. In effetti ciò che è libero non può avere un valore economico e il concetto di gratuità, che sgrava dei costi per usufruire di qualcosa che tuttavia rimane sotto il controllo di un proprietario, è arrivato soltanto nel XVI secolo.

Ci sono voluti millenni quindi per inventare ed affermare il concetto di gratuità. Gli utenti della rete però si son dimostrati poco avvezzi a comprendere questa distinzione fin’ora, anche se le cose, che piaccia o no, stanno cambiando, con le dovute considerazioni da fare.

Il web agli albori fu per prima cosa una nuovo, più veloce e multi-direzionale mezzo di comunicazione e informazione. La carta e l’etere analogico, non potendo evitare uno scontro perso in partenza, decisero di allearsi col “nemico”, iniziando una nuova vita online che ha cambiato il mondo. Tutto bene più o meno, se non fosse che i modelli economici del web rendono molto meno di quelli che si utilizzavano “afk”, soffrono maggiore concorrenza (anche di bassa lega) e “rubano” mercato ai canali tradizionali, che quindi non rendono più come un tempo.

Tira aria pesante, il clima è teso e servono dei colpevoli: Google.
Il motorone di ricerca è stato più volte attaccato per i suoi servizi di indicizzazione delle news, tuttavia incassando i colpi senza mai scomporsi, ma all’alba della morte dello user generated content, oggi promette alle associazioni degli editori nuovi modelli di businness e quindi un futuro più roseo, forse.

Google si sta confrontando con il mondo dell’editoria, ragionando su strategie costruite su modelli pay-per-news, perché i servizi non siano più ricompensati soltanto da advertising ma anche dal contributo volontario dei lettori. All’orizzonte si intravedono sagome confuse di siti che saranno chiusi interamente o parzialmente sotto il lucchetto di un abbonamento e di micro-pagamenti che chiederanno un compenso per continuare la lettura oltre un abstract.

Tutto questo sarà messo in piedi con l’aiuto di Google, che già è attiva nel settore con Google Reader e Google News, unendo questi prodotto con il rivale di Paypal, Google Checkout.

Questo significa che secondo i piani di Mountain View e degli amici che sta tentando di farsi, forse in un futuro non molto lontano potremmo dover pagare per accedere ad articoli, saggi e news, ottenendo al contempo un aumento della qualità del servizio, almeno secondo le intenzioni.

L’idea di avere approfondimenti più accurati in cambio di soldi non dispiace a priori, ma non è detto che il modello funzioni, sia dal punto di vista del gradimento che da quello della sostenibilità economica.

Attualmente basta un solo giornalista al mondo perché una notizia venga ripresa nel giro di poche ore da mezzo mondo. Perché dei contenuti di qualità possano giustificarne l’acquisto gli articoli dovranno essere ben pagati e non scritti da stagisti usati come telescriventi, prostrati dal miraggio di un tesserino da giornalista non ancora conquistato. In sostanza per incassare di più si dovrà anche investire di più, con i possibili rischi del caso.

Bisogna poi aggiungere che l’informazione online di oggi non è sintetica e veloce soltanto per motivi di budget. La necessità di sintesi arriva dalla scarsa propensione degli utenti ad affrontare lunghe sessioni di lettura, da una parte per colpa dei monitor, poco adatti allo scopo e dall’altra perché il web permette di seguire il nostro flusso di interesse indipendentemente da come è strutturata l’informazione online, rendendo persino superfluo in molti casi leggere uno scritto per intero. Perciò anche se è vero che il modello gratuito permette il proliferare di notizie imprecise, marchette e copia-incolla, non è detto che un’informazione di maggiore qualità, se distribuita sul possa interessare un pubblico tanto vasto da giustificare l’implementazione di nuovi modelli economici.

Infine, per riallacciarmi all’introduzione di questo articolo, ma senza voler prendere le difese di nessuno, voglio far notare come la strada che si vuole intraprendere finirà inevitabilmente per chiudere l’informazione in aree riservate e non accessibili, salvo previo pagamento.
Ferma restando la necessità di riconoscere il lavoro delle figure meritevoli, i sistemi basati su micro-pagamenti e abbonamenti renderebbero la circolazione di notizie e idee meno libera. In questi termini il mio può sembrare un giudizio lapidario, su una questione comunque ampia e complessa, eppure il mio non è un giudizio politico o ideologico, ma una semplice costatazione ottenuta scomponendo il quadro nei minimi termini.

Un lavoro difficilmente può essere portato a compimento senza un riconoscimento o un sostentamento economico, ma nell’evoluzione millenaria delle tecnologie legate alla circolazione del pensiero, che nei secoli hanno abbattuto i costi, permettendo una sempre più capillare diffusione della conoscenza, potremmo vedere oggi per la prima volta un primo piccolo passo indietro in una strada che fin’ora avevamo percorso in una sola direzione.

Mi viene da chiedere se non sia il caso di spremersi le meningi per inventare nuovi sistemi di remunerazione adatti alle potenzialità della rete presenti e future, piuttosto che adattare la rete a vecchi modelli economici.

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