Possiamo dire ciò che sappiamo pensare?

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Dopo il post della settimana scorsa in cui ci siamo domandati se possiamo pensare ciò che non sappiamo dire , oggi possiamo porci la domanda immediatamente successiva: possiamo dire tutto ciò che pensiamo? Ponendoci questa domanda dopo quella precedente seguiamo il percorso cronologico che ha portato l’evoluzione del determinismo e relativismo linguistico . Se la settimana scorsa abbiamo parlato delle teorie di Willhelm von Humboldt, Worf e Sapir, oggi vediamo cosa è successo dopo, con Franz Boas e il più contemporaneo Dan I. Slobin.
Un’ottimo articolo è proprio scritto da quest’ultimo autore, che spiega in modo preciso come si passa da “linguaggio” e “pensiero” a “pensare per dire“. L’articolo è “From thought and language to Thinking for Speaking “.
L’idea dell’autore è una’evoluzione della teoria di Boas, secondo cui ogni essere umano, in qualsiasi società e zona geografica viva, ha un’immagine completa di un’idea o di un oggetto nella propria mente, ma a causa delle regole grammaticali del suo linguaggio sceglie che cosa esprimere all’interlocutore, esprimendo ed enfatizzando alcune parti e tralasciandone altre. Slobin elabora maggiormente questo concetto, spiegando che la teoria di Worf-Sapir, secondo cui la nostra mente può concepire solo concetti che possiamo esprimere a parole, è un po’ estrema, poiché Worf non è riuscito a dimostrare che cosa pensano le persone che non esprimono un concetto a parole.

Secondo Slobin non è corretto parlare di pensiero e linguaggio, ma si dovrebbe parlare di pensare per parlare. La differenza è sostanziale, perché in quest’ultimo caso si suppone che il pensiero dell’individuo si suddivida in diversi tipi di pensiero e, in particolare, ce ne sia uno specifico che si ha nel momento stesso in cui si parla, che ci dice come organizzare il flusso di parole.

Questo pensiero, però, non ha nulla a che vedere con la nostra concezione del mondo, ma serve solo per organizzare la frase che siamo pronunciando. Quest’idea, in contrapposizione con quella di Worf, ha il grande vantaggio di essere molto più facile da sperimentare, e può anche rispondere a Boas, introducendo nella sperimentazione un’analisi statistica.

Slobin ha sottoposto l’immagine riportata all’inizio di questo post, tratta dal libro per bambini “Frog, where are you ” di Marcer Mayer, a un campione di persone, suddivise per lingua (inglese, spagnolo, tedesco ed ebraico) e per età (età prescolastica, cioè dai 3 ai 5 anni, età scolare ed età adulta). L’intervistato doveva descrivere con parole sue e nella sua lingua l’immagine riportata, ed altre immagini tratte dallo stesso libro.

I risultati sono estremamente interessanti, e per conoscerli appieno vi consiglio di leggere direttamente l’articolo, perché proprio su un argomento del genere i rischi del “lost in translation” sono molto alti. Cerco in ogni caso di mostrare i risultati nel modo più chiaro possibile.

L’osservazione dei risultati si suddivide in tre parti: lo stile retorico utilizzato dall’intervistato, la descrizione temporale e la descrizione spaziale.
Lo stile retorico si nota, per esempio, osservando che i soggetti madre lingua inglese mostrano una tendenza a esprimere in modo completo la descrizione delle azioni. Per esempio “il bambino cade verso terra” o “il cervo lancia il bambino verso lo stagno”. Al contrario chi si esprime in spagnolo tende a essere molto meno preciso nel descrivere le azione, dicendo semplicemente “il bambino cade”o “il cane corre”.

D’altro canto in spagnolo c’è la tendenza e descrivere con molta più precisione gli ambienti. Si nota inoltre, che I bambini inglesi fanno un uso molto più abbondante di frasi passive, mentre I bambini spagnoli utilizzano più frasi secondarie. In questo modo in inglese è possibile enfatizzare un personaggio nel corso dell’azione, mentre in spagnolo si può descrivere meglio un’oggetto o una persona.
La descrizione temporale mostra a sua volta grandi differenze tra le diverse lingue. Sia in inglese che in spagnolo esistono forme verbali adatte ad esprimere azioni continuative. Per esempio nell’immagine sopra un bambino inglese direbbe “the kid fell from the tree and the dog was being cheased by the bees” e un bambino spagnolo, traducendo in italiano per analogia, direbbe “il bambino cadde dall’albero e il cane veniva inseguito dalle api”.

L’uso dell’imperfetto, in questa frase, ha lo stesso ruolo del verbo continuativo in inglese, ed esprime un’azione che si prolunga nel tempo. In tedesco e in ebraico, invece, questa forma verbale è assente, e nella maggior parte dei casi sia i bambini che gli adulti utilizzano lo stesso tempo per entrambe le azioni “il bambino cade e il cane corre”.

A questo punto è interessante notare due aspetti fondamentali. Uno è che anche I bambini più piccoli del campione, cioè di 3 anni di età, hanno seguito questi schemi grammaticali, proprio come gli adulti. Di conseguenza si può capire che il pensiero per dire una cosa si sviluppa con la conoscenza della lingua fin dagli albori, ed appare chiaramente già nei bambini più piccoli.

D’altro canto quello che osserva è anche che non tutti gli intervistati di una certa lingua seguono questo schema. Si nota infatti che circa il 20% dei parlanti tedesco o ebraico cercano di esprimere la differenza temporale delle due azioni, magari usando il passato per una e il presente per l’altra, o aggiungento un costrutto verbale più complesso.

Analogamente, circa il 20% di chi parla inglese o spagnolo pronuncia una frase che non esprime per niente questa differenza, dimenticandosi di usare l’imperfetto o il verbo continuativo. Questo dimosta che sebbene la lingua induca una forma mentis che predilige l’espressione di certi concetti piuttosto che altri (e questo fin dalla più tenera età) non impedisce all’individuo di capire la differenza tra questi concetti e di cercare modi per esprimerla.

Anche la descrizione spaziale varia molto da lingua a lingua. In inglese si usa affiancare il verbo di movimento (run, fall, throw) con particelle che danno un’informazione sulla direzione in cui avviene il movimento (fall down, throw away…). In spagnolo invece, come del resto in italiano, bisogna costruire una frase che fa intuire all’interlocutore la direzione in cui avviene il movimento (per esempio: il bambino mette la rana nella scatola sotto di lui, oppure: l’uccello esce dal buco dell’albero e vola verso il basso).

In pratica la differenza è questa: in inglese si spiega la traiettoria e si lascia immaginare il punto di arrivo, mentre in spagnolo si spiega il punto di arrivo e si lascia immaginare qual è stata la traiettoria. Anche in questo caso vale lo stesso discorso della descrizione temporale: non è che un bambino spagnolo non può esprimere qual è la traiettoria di un’oggetto; semplicemente tenderà a non farlo, perché nella sua lingua è grammaticalmente più naturale dire qual è il punto di arrivo e lasciare l’interlocutore immaginarsi la traiettoria seguita. Includendo le altre lingue si osserva che il tedesco si comporta come l’inglese, mentre l’ebraico come lo spagnolo.

Questo esperimento, ovviamente, va considerato come tutti gli esperimenti, ovvero come un’osservazione dell’andamento statistico di un campione, e non come oro colato. Resta però interessante vedere come le caratteristiche descrittive osservate nei bambini spagnoli si ripresentino anche nei bambini cileni e argenitini.

Slobin conclude facendo un passo in più, cercando di osservare il comportamente delle persone che imparano una seconda lingua. Quello che si osserva, è che questi schemi mentali acquisiti da bambini, sono difficili da superare, e rappresentano generalmente il più grande ostacolo per chi vuole imparare una nuova lingua.

Per esempio per un italiano è difficile prendere dimestichezza con l’uso delle varie particelle che, attaccate al verbo, ne cambiano interamente il significato. D’altro canto per gli inglesi e difficile imparare tutte le forme modali dei verbi delle lingue latine, visto che la struttura in inglese è generalmente differente. Questo dimostra come sia importante il pensiero che si sviluppa accanto alla parola, nella nostra mente infantile.

Devo dire che personalmente apprezzo molto di più l’approccio di Slobin rispetto a quello di Worf, essenzialmente perché lascia da parte considerazioni irrisolvibili come la nascita dell úovo e della gallina, ma si concentra sull’osservazione diretta dei fatti.

Queste considerazioni portano inevitabilmente a domandarsi, in una società multiculturale come la nostra, quanto queste differenze di espressione pesino nella comunicazione reciproca e, perché no, quali sono i risvolti sociali di quese differenze.

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