Il “tutto gratis” al capolinea

Ship Sinking

Dalla rete arriva un’aria nuova, che sa di cambiamento. Qualche giorno fa accennavo a uno dei pilastri della rete per come l’abbiamo conosciuta finora, l’anonimato, che inizia ad entrare in forte contraddizione con i più recenti trend che attraversano Internet.

Oggi vorrei ragionare un po’ sul “tutto gratis“, che è un po’ un modello di business (bislacco o meno a seconda dei momenti e delle applicazioni) e un po’ uno stato d’animo dell’utente, indotto dalla “smaterializzazione” che il nuovo medium porta in dote, a confondere concetti come l’accesso e il possesso, a ritenere che tutto ciò cui può accedere, tutto quel che può passare per il “tubo” di connettività che paga, gli spetti.

L’utente Internet si secca davanti alla pubblicità, mal sopporta i banner e, quando individua le marchette, giustamente si sente preso per fondelli e s’indigna. Anni di martellamento da parte di utopisti, digerati e altri teorici di nuovi modelli di business che vedono nel digitale la fine dell’economia – intesa come gestione di risorse scarse – hanno tuttavia alimentato nell’utenza una concezione precisamente antieconomica: ciò che può essere smaterializzato può avere valore ma non merita remunerazione.

Prima di saltare alla sezione commenti per bollare quest’analisi come retriva, antistorica e inutilmente polemica, ci tengo a precisare che io stesso, assieme a tanti altri che oggi si ritrovano, forse con due minuti di anticipo rispetto all’entusiasmo generale, a dover rivedere le proprie posizioni, ho in qualche misura ceduto alla seduzione di questa trappola. Ho dovuto, negli anni, cambiare idea. Se avete un po’ di pazienza, vi spiego perché.

Come si suol dire, cuccagna finché dura, ed è durata a lungo: partendo dalla metà degli anni ’90, siamo già a una quindicina d’anni durante i quali i mutamenti avvenuti nel contesto tecnologico hanno letteralmente ricattato interi comparti economici, costringendoli ad una revisione dei propri modelli di business, pena l’estinzione.

Una revisione non necessariamente negativa: negli anni precedenti all’avvento di Internet, per esempio, le major musicali e cinematografiche hanno goduto di margini esorbitanti, frutto di un’attività di intermediazione/distribuzione che ai tempi della rete è divenuta sempre più povera di valore aggiunto. Cosa più grave, la reazione di questi soggetti alle mutate condizioni tecnologiche è stata minata alla base dall’idea, dimostratasi insostenibile, che la repressione attraverso gli strumenti legali potesse bloccare la corrente.

Dopo anni di tutto gratis, un decennio sano di P2P, lo scoppio di una colossale bolla speculativa, numerosi e nella maggior parte dei casi velleitari tentativi di trovare una sostenibilità economica, ci ritroviamo all’incirca al punto di partenza: fatto salvo il caso di Google, il danaro dei venture capitalist muove oggi il grande ingranaggio 2.0, basato anch’esso sulla totale gratuità ma infestato di dubbi sulla privacy che la massa bellamente ignora.

Parlare di profitti in riferimento ai moderni social network suscita poco più che ilarità: fra Facebook che ha spinto la sua questua fino alla Russia, MySpace che licenzia un terzo della sua forza lavoro, Twitter il quale mi pare campi di solo hype – spesso costruito ad arte da una pletora di agenzie e professionisti “gialli” che sfruttano il network per costruire fantasiosi piani marketing – la quadratura dei conti è ad una distanza siderale.

In attesa che il “grande fratello” diventi un modello di business canonizzato e profittevole, i dati personali accumulati da social network e motori di ricerca, Google in testa, non trovano ancora una remunerazione diretta e definita.

Nel frattempo produrre contenuti e veicolarli su grandi infrastrutture di rete continua a costare danaro vero, il talento e la qualità rimangono un bene scarso che necessita di remunerazione e la fibra ottica non cresce sugli alberi.

1: La distribuzione

Le prime avvisaglie di guerra si stanno scatenando nel fondamentale triangolo delle Bermuda che vede ai tre vertici produttori di contenuti, piattaforme di accesso/distribuzione terze come Google e, infine, i carrier. I primi, piegati dalla crisi delle vendite – una crisi cui la copia illegale non è estranea – cercano di monetizzare i propri contenuti attraverso la distribuzione legale. I carrier e gli ISP dal canto loro, faticano a sostenere la crescita dei requisiti di banda dovuta al video streaming (legale o illegale che sia) e minacciano le piattaforme di distribuzione di chiudere i rubinetti, osteggiando vigorosamente la net neutrality.

Dall’altra parte ci sono i protagonisti dell’avvento dello streaming video, Google in primis, che – pur non riuscendo a loro volta a monetizzare – si avvalgono di due “free ride”: il primo è quello che avviene ai danni dei detentori di proprietà intellettuale, il secondo è quello le cui conseguenze si scaricano, per l’appunto, sugli operatori che forniscono banda di tipo flat all’utente finale (si veda il caso BT vs BBC).

Fermiamoci un attimo per pesare il reale valore di questa querelle: attorno ai tre soggetti citati gira il grosso dei soldi che fanno capo ad Internet.

Un quadro per certi versi simile, si prospetta peraltro all’orizzonte, con la prossima maturità del Software As A Service e il cloud in generale, e il conseguente coinvolgimento di altri titani del mondo tecnologico nel ruolo dei “free riders”.

Dall’altra parte della barricata i soliti digerati – più o meno fortunati collettori di gettoni di presenza presso le conferenze 2.0, autori di libri sulla “grande rivoluzione” ormai vicina al crac finanziario, strenui difensori a priori della libertà dai vincoli del danaro e della vituperata “old economy” – difendono a gran voce la net neutrality finanziata dalle tasche altrui.

Fra i due litiganti il terzo, ovverosia Google, per ora gode, ma nel frattempo, a quel che si sente fin dal 2005, acquista fibra. Quale sarebbe la profittabilità del suo modello di business, dovesse trasformarsi in un grande carrier, è per ora materia delle più astratte speculazioni. Dubito tuttavia che si spingerebbe fino al relativamente povero mercato della connettività privata. Più facile che voglia acquistare segmenti dell’infrastruttura che oggi noleggia a caro prezzo per veicolare contenuti.

Intanto alcuni ISP, mettendo in pratica un poderoso esempio di tradimento della net neutrality, cercano di districarsi nella giungla del business online con le proprie piattaforme di distribuzione: niente di più naturale ed economicamente sensato per un ISP, che cercare di concentrare il traffico all’interno della propria rete. La stessa grande G, dovesse domani essere chiamata a decidere se sacrificare la qualità dei propri contenuti video per lasciare spazio a quelli di Microsoft o Apple, rettificherebbe forse le proprie posizioni sulla net neutrality.

2: Contenitori e contenuti

Guardando la questione dalla prospettiva dei grandi e piccoli gruppi editoriali, la situazione non è più rosea: a piantare un chiodo dopo l’altro nella bara di questi soggetti, a cui – è bene ricordarlo – si deve tutto ciò che abbiamo chiamato informazione per un secolo e più, è il Web 2.0, lo user generated content, il dilettantismo imperante, che con la leva della sua natura gratuita e volontaria, sta producendo due ordini di effetti:

– costringe chi opera da professionista nella comunicazione a scendere a compromessi sulla qualità dei contenuti;

– spinge i professionisti ad avvicinarsi, volenti o nolenti, sempre più alle spinte “marchettare” ottimamente collaudate nel Web 2.0 e messe a sistema dai suddetti soggetti “gialli”: dopotutto la pubblicità fuori dagli spazi pubblicitari vale più di quella che l’occhio si è allenato ad evitare.

Tutto questo si traduce in maniera diretta in un degrado della qualità esperita dagli utenti, i quali si sottraggono alla pubblicità tradizionale per ficcarsi inconsapevolmente nei flussi “gialli” di pratiche come il “conversational marketing”, una delle parole calde del mondo delle marchette 2.0 – dietro cui si maschera la banale considerazione che, a differenza di una comune conversazione, in questo caso, da una parte del “filo” c’è qualcuno che guadagna soldi per promuovere ciò di cui parla, e raccogliere le opinioni del pubblico.

3: Concludendo

Tanto nell’ottica dei contenuti 2.0 quanto in quella dei temi legati alla distribuzione, gli sfasci del “tutto gratis” appaiono complessi e profondi. Una serie di sistemi economici fortemente interrelati sta rimodellandosi – chi guadagnando, chi andando incontro alla rovina – attorno all’ottusa cultura della gratuità, alla percezione, cavalcata ad arte ed interiorizzata dall’utenza, che il pagamento del canone di accesso alla rete compensi il possesso di tutto quel che la rete contiene.

L’insostenibilità di questo paradigma sta emergendo prepotentemente e il futuro della rete nel suo complesso, sembra sempre più configurarsi attorno alla dicotomia alta qualità a pagamento per pochi/scarsa qualità gratis per tutti. Chi non se ne avvedrà in tempo e continuerà a blaterare le futili “keyword” che già sono costate all’economia occidentale la prima bolla, si troverà presto a navigare felice e contento nel mare giallo delle sponsorizzazioni occulte e delle marchette imboscate, dalle quali l’immortale e ben nota categoria di furbi dagli enormi nodi di cravatta, continuerà a guadagnare.

Non ho bisogno di dire che non verserò una sola lacrima per loro: il torto, storicamente imperdonabile, è perpetrato a carico dei miliardi di “digital divisi”, individui inconsapevoli e in questo senso innocenti, sui quali tuttavia ricadrà la storica incapacità della rete di mettere a sistema la qualità e la remuneratività che da sempre propelle il genio, il talento e la professionalità.

Tutti gli altri pagheranno, e pagheranno più di quello che avrebbero pagato se l’utenza nel suo complesso – la famosa massa – avesse dimostrato di saper distinguere il grano dalla pula.

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