La notizia “crea” il suo pubblico o è il pubblico che “crea” la notizia?

Sembrerà una tipica domanda marzulliana ma credo che dietro di essa si nasconda un aspetto cruciale dell’evoluzione dei media, nuovi e vecchi. Poniamocela dunque, e vediamo quali riflessioni ne risultano.

Iniziamo con la prima parte: la notizia crea il pubblico?

Img courtesy of orwelltoday.com

Sui media tradizionali certamente sì. La rete televisiva X, la testata giornalistica Y, la trasmissione Z e finanche la rubrica N e il commentatore A, impattano in teoria su un pubblico generalista, ma ancor meglio ne isolano una certa porzione, fidelizzandola. In che modo? Schierandosi politicamente, usando uno stile espressivo idoneo per determinate fasce sociali più che per altre (p. es. elevata alfabetizzazione), scegliendo argomenti di interesse specifico e così via. Strumenti questi che fidelizzano una parte di pubblico e di converso, ne lasciano fuori un’altra.

Nello scenario mediatico determinato dalla rete, alcuni cambiamenti influiscono sul rapporto fra contenuti/contenitori e pubblico, particolarmente fra contenuti e pubblico. Innanzitutto perché l’informazione “a portata di mano”, è quanto mai sovrabbondante rispetto alle risorse dei fruitori; in seconda battuta perché è immediatamente disponibile tramite lo strumento della ricerca – che la denuda in qualche misura del suo “contenitore” originario – tramite il quale il fruitore antepone per definizione la sua motivazione (ivi compresi, potenzialmente, i suoi pregiudizi e il suo orientamento ideologico) al contenuto cui si sottopone selettivamente.

In parole povere, se fino a ieri un appassionato di una certa parte politica poteva autolimitarsi al giornale/telegiornale “di partito”, oggi ha facoltà di scegliere le sue keyword, eventualmente aggiungere aggettivi qualificativi alle chiavi della ricerca, di fruire di “personalizzazioni” dei risultati di ricerca in base alle preferenze precedenti, di aggregare contenuti in palinsesti da lui stesso ritagliati e dunque di fossilizzarsi più che mai sulle proprie posizioni, utilizzando il più formidabile filtro mai applicato al bombardamento mediatico.

Al nostro lettore è finanche possibile diventare produttore attivo di contenuti che rispecchino sue posizioni; contenuti i quali poi diverranno oggetto dell’interesse di soggetti a lui omologhi, tramite gli stessi meccanismi. Insomma, un po’ come cantava Battiato qualche anno fa, le pareti del cervello non hanno più finestre, e i compartimenti che separano la propria opinione da informazioni che potrebbero mutarla, rischiano col tempo di diventare totalmente stagni.

Già, perché nulla garantisce l’aderenza ai fatti di un’opinione pescata dalla rete. Non che l’appartenenza all’ordine italiano dei giornalisti, possa rassicurare più di tanto ma perlomeno, in una situazione ideale, il filtro editoriale applicato da una testata potrebbe eliminare gli errori più pacchiani prima che arrivino ad un pubblico che non necessariamente ha gli strumenti per formarsi pienamente un’opinione, non essendo di mestiere storico, giornalista, economista, scienziato e via discorrendo.

Finisce quindi che questa operazione selettiva, in cui come si diceva, non è impossibile applicare filtri che seguano i propri pregiudizi, espone anche a pareri e letture già a loro volta distorte/ideologizzate/rimasticate da chi magari non ha conoscenza diretta dei fatti e in nessun modo si pone come obiettivo l’imparzialità. Col frenetico passaparola, pardon, “buzz”, tipico della rete, il rischio che il topolino diventi elefante è strutturalmente elevato.

In conseguenza di tutto ciò, in una rete che brandisce in una mano il cadavere del broadcast e nell’altra quello del giornalismo professionale, in una rete che approccia l’utente seducendolo con l’idea di dargli la parola dopo anni di ascolto passivo – indipendentemente dalla fondatezza e rilevanza di ciò che ha da dire –  in una rete che, coi motori di ricerca, appiattisce al minimo possibile la distinzione fra contenitore e contenuto, insomma in una rete così configurata, è dato ormai per scontato che il fruitore “crei” il suo contenuto, divenga artefice in tempo reale della sua cultura (o non-cultura). Il che basta a scardinare i presupposti – menzionati all’inizio – che si trovano alla base del rapporto media/pubblico sui media tradizionali.

A guardar bene tuttavia, anche ai tempi della rete, forse meglio che in passato, il contenitore/contenuto può selezionare immediatamente il suo pubblico. Analizziamo il lato pratico della questione: il primo problema che si dovrebbe porre chi crea oggi contenuti sulla rete – al netto di qualunque logica di fidelizzazione – è come catturare una parte del flusso di click, sufficientemente ampia da raggiungere determinati obiettivi di guadagno.

In che modo? Magari usando “l’olfatto”: intuendo i trend del momento, accompagnandoli, finanche guidandoli. Chiaramente questa logica sottintende il gioco al ribasso da sempre in scena sui media tradizionali a caccia di pubblico: è in questo senso ahimè inevitabile, per chi voglia inaugurare un blog tecnologico ed abbia fretta di monetizzare, il ricorso alle solite quattro fregnacce attorno cui ruotano enormi volumi di click: torrent, uso del peer to peer, jailbreak, sim lock, copia illegale, il tutto possibilmente condito da donnine nude per catalizzare l’onanismo latente dell’internettaro.

C’è però un’altra soluzione, ed è quella di seminare contenuti autorevoli e ben fatti, ed augurarsi che il pubblico per essi rilevante li noti e se ne avvantaggi sempre più spesso. Inutile dire che si tratta di una strada minoritaria e molto più avara di risultati e di danari – perlomeno nell’immediato – di quella percorsa dai soliti furboni, pronti a cavalcare trend sempre più futili ed istantanei, pur di monetizzare.

A ben guardare tuttavia, entrambe queste tecniche sono molto “1.0”, nel senso che raccolgono due paradigmi che esistono fin da quando esistono i media di massa – nel primo caso parliamo dello spiacevole caso della “tematizzazione”, nel secondo delle migliori qualità ispiratrici del giornalismo.

Il rapporto fra pubblico e contenuti/contenitori sfugge dunque alla dicotomia espressa nel titolo, mostrandosi oggi più che mai bidirezionale.

Che si parli di informazione 1.0, 2.0, blog, social media etc., un parametro rimane tuttavia comune e cruciale, ed è quello della competenza. A nessuno interessano, o meglio, interesserebbero se li riuscisse a individuare a priori, pareri espressi e informazioni commentate da incompetenti, eppure oggi i motori di ricerca non ci offrono strumenti esatti per discernere fra le fesserie di un grafomane e le analisi di un professionista.

Che piaccia o meno, attorno al parametro della competenza, della capacità di chi siede davanti alla tastiera, di praticare il “mestiere” di informare, si gioca il futuro dello scenario mediatico nel suo complesso: la rimozione dei “gatekeepers” tradizionali in nessun modo ci mette al sicuro dall’arrivo di altri, più subdoli manovratori: già li vediamo all’orizzonte.

Attorno alla capacità di incentivare e valorizzare il buon giornalismo, si gioca dunque il futuro della rete, un medium anarchico nel bene e nel male. Si gioca particolarmente ora che una serie di furbi – agenzie truffaldine, blogger prezzolati e via discorrendo – vi sta affondando gli artigli.

Si dice spesso, parlando del degrado della televisione, che la popolazione ha la TV che merita, la TV che vuole. A sostenerlo sono perlopiù coloro che nella produzione televisiva operano direttamente, mentre gli altri, i telespettatori, mostrano qui e là vigorosi segni d’insofferenza.

I telespettatori d’altronde, possono solo scegliere se subire o spegnere la televisione. Sulla rete invece ogni utente ha un piccolo potere, e sarebbe il caso che valutasse di usarlo non per la ricerca di una celebrità di cartapesta e tantomeno rincorrendo il vano sogno di far soldi – impresa riuscita ai soliti quattro che da anni ci sventolano verdoni in faccia ad ogni occasione – ma per sputtanare i marchettari imboscati e difendere uno spazio della cui libertà e capacità rivoluzionaria, si potrebbe un giorno avvertire la mancanza.

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