Youtube, Viacom e la bolla dello user generated content

Mi ricordo che nel 1999 si metteva una @ o una e- davanti a qualunque servizio per dargli un alone mistico di inevitabilità. Dopo quasi dieci anni, il ruolo di e- e di @ è stato raccolto dalla formula “2.0”. Il passaggio potrebbe tuttavia rivelarsi più formale che sostanziale, nel momento in cui Youtube, uno dei pilastri di questa “rivoluzione” si prepara ad essere denudato.

Una sentenza federale ha infatti imposto al popolare servizio facente capo a Mountain View, di passare tutte le statistiche relative ai contenuti (e agli utenti) di Youtube alla Viacom, nell’ambito di una causa per violazione di copyright. 12Tb di dati su chi ha visto cosa, dall’inizio ad oggi.

A mio parere, ciò che di più grave – per Google, per i suoi investitori e per l’economia legata al web in genere – queste statistiche potrebbero mostrare, è l’irrilevanza dello user generated content all’interno dei dati di utilizzo di Youtube.

Altro che i tanto strombazzati problemi di privacy: un eventuale, e per quanto mi riguarda piuttosto scontato, predominio dei materiali protetti nei rank di Youtube, getterebbe una luce sinistra anche sul miliardo e 650 milioni di dollari che Google ha sborsato per acquisire il rivale del suo Google Video, quindi sul modello di business di Youtube, sull’incidenza delle pretese dei detentori nei bilanci di Mountain View e in ultima analisi sulla “rivoluzione” del Web 2.0 e del citatissimo user generated content.

Un paio di pensierini. Ho personalmente sempre reputato la gran parte dei video prodotti da utenti di Youtube nient’altro che ciarpame. Alcune iniziative interessanti vanno nascendo: canali tematici, approfondimenti, gente che attacca il suo Vic-20 e mi fa riprovare l’emozione del “syntax error”. C’è poi il contributo di molte TV, di istituzioni, di opinionisti nati e cresciuti offline: tutti soggetti che trovano nel servizio di video sharing spazi ampi e inesplorati.

C’è insomma bisogno di tempo perché il mezzo maturi e arrivi ad innalzare omogeneamente il proprio livello qualitativo, relativizzando, se non altro, il peso delle torte in faccia.

Nel frattempo, come già fin da principio, i contenuti protetti avranno un inequivocabile ruolo di volano per avviare la grande macchina culturale che Youtube già è ma ancora di più può diventare. Quanto valga questo contributo è difficile dimostrare, dato che spesso si tratta di materiale altrimenti assolutamente irreperibile, da cui le major non avrebbero comunque tratto profitto.

D’altronde la caduta, parziale o maggioritaria, dello user generated content, potrebbe esporre il portale a venti di tempesta. C’è solo da augurarsi che la spesa valga ancora l’impresa.

Una domanda resta nell’aria fin dai tempi della costosa acquisizione: se Google invece di acquisire Youtube avesse atteso di vederlo schiacciato dal peso delle violazioni dei copyright, se invece di pagare per conciliare coi detentori, avesse spinto sul proprio Google Video un modello di business diverso, battendo Youtube sul fronte dei contenuti liberi e di qualità, gli investitori di big G sarebbero oggi più contenti?

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