Sistemi propulsivi aeronautici – gli Endoreattori

Mi scuso ancora una volta per i mancati post degli ultimi lunedì, ma come più volte detto le motivazioni sono da imputarsi ai vari impegni lavorativi e personali che spesso (così come questa volta in maniera particolare) limitano il tempo a disposizione per potere scrivere su queste pagine, e che spero rappresentino un ostacolo solo temporaneo senza che turbino a lungo la regolarità dei post della rubrica Energia e Futuro.

Venendo all’argomento odierno, continuiamo a parlare di Sistemi Propulsivi Aeronautici andando a presentare una soluzione conosciuta ed utilizzata da lungo tempo, soprattutto nel campo aerospaziale, l’Endoreattore, meglio noto come Motore a Razzo.

DALLA SECONDA LEGGE DI NEWTON AL MOTORE A RAZZO

Sebbene nella propulsione aeronautica abbiamo già incontrato delle soluzioni che sfruttano in senso stretto la terza legge della dinamica (sostanzialmente tutte quelle presentate), la famiglia di motori di cui parleremo oggi presenta una modalità di funzionamento apparentemente analoga ai pulsoreattori, nei quali una massa combusta genera la spinta senza necessità di parti rotanti come avviene nei comuni motori turbogetto e turboventola.

Gli endoreattori sono motori nei quali sia il combustibile che il comburente vengono immagazzinati a bordo, in serbatoi separati oppure già miscelati tra loro, in forma gassosa, liquida o solida.

Da questa prima descrizione è immediato pensare come questi motori siano in grado di fornire la spinta anche in condizioni (ad esempio al di fuori dell’atmosfera terrestre) dove non sia disponibile ossigeno per le reazioni di combustione, ma tale caratteristica vantaggiosa si ripercuote ovviamente sul fronte dell’autonomia in quanto, il dovere immagazzinare entrambi i componenti per la combustione, richiede maggiore spazio a disposizione ed un maggiore peso finale a parità di altre condizioni.

Per quanto riguarda la classificazione degli endoreattori si possono utilizzare varie soluzioni, ma una prima classificazione deve “necessariamente” passare per il tipo di energia primaria utilizzata.

Una prima distinzione degli endoreattori in base a quanto appena detto permette quindi di identificare come:

  • a propulsione Chimica
  • a propulsione Nucleare
  • a propulsione Elettrica

Esistono anche ulteriori soluzioni riguardo alle quali si è quantomeno discusso od ipotizzato, ma tra tutte le soluzioni di cui si può discutere, l’unica che abbia effettivamente visto impieghi rilevanti è stata la soluzione chimica.

Una ulteriore suddivisione può essere fatta (limitandosi alla propulsione Chimica) sulla modalità di immagazzinamento del combustibile e del comburente (più in generale Propellente):

  • a Propellente Solido
  • a Propellente Liquido
  • a Propellente Gassoso
  • a Propellente “Ibrido”

La prima soluzione consiste nell’immagazzinare in forma solida sia il combustibile che il comburente, ed in virtù di questo permettono una configurazione costruttiva davvero semplice in quanto non sono presenti sistemi di alimentazione ma solo un sistema di innesco della reazione, la quale avviene sulla superficie dei grani di combustibile e dalla quale si genera un gas combusto che viene espulso attraverso un ugello di De Laval.

Sebbene possa sembrare piuttosto strano, l’origine di questa soluzione risale a tempi piuttosto remoti, essendosi trovate tracce ed informazioni di impieghi di soluzioni di questo genere sin dal secolo VII d.C. in Cina, sebbene i razzi a propellente solido così come gli intendiamo oggi siano ben più recenti ed abbiamo subito un interesse sempre crescente a partire dal 1800 fino ai giorni nostri.

Alla semplicità costruttiva di questa soluzione fa da contraltare l’impossibilità di controllare lo sviluppo delle reazioni (e quindi della spinta) durante il funzionamento, pertanto i razzi che adottano tale soluzione sono in genere impiegati come razzi vettori per apparati spaziali.

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(Endoreattore a propellente solido – Courtesy of www.aerospaceweb.org)

La seconda soluzione prevede l’impiego di combustibile e comburente entrambi allo stato liquido, sotto forma di un’unico componente (la cui reazione è spesso attivata da un catalizzatore) oppure di due componenti, soluzione (soprattutto quest’ultima) che richiede pertanto due sistemi separati di alimentazioni per le due componenti, e che di conseguenza complica notevolmente l’endoreattore.

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(Endoreattore a propellente liquido – Courtesy of NASA)

Il primo esempio di endoreattore a propellente liquido che ha avuto degli impieghi concreti è stato quello adottato dalle temute V-2 tedesche, ma impieghi più recenti sono stati quelli (tra quelli già affrontati in questa rubrica) dei sistemi propulsivi del Bell X-1 e del North American X-15.

Un sistema che utilizza sia la prima che la seconda soluzione è il complesso dello Space Shuttle al decollo, in quanto la navetta utilizza del propellente liquido mentre i razzi vettori propellente solido.

La terza soluzione non vedi largo impiego pratico in quanto, a causa dello stato gassoso del propellente, i limiti di autonomia e le conseguenti problematiche di spazio per l’immagazzinamento dello stesso , ne limitano fortemente l’impiego.

La quarta soluzione rappresenta invece una via intermedia rispetto a quelle finora proposte, prevedendo l’impiego del combustibile e del comburente sotto forme differenti, e molto utilizzate sono quelle che prevedono un componente solido ed uno liquido, e tale soluzione ha trovato finora impiego pratico solamente per il velivolo spaziale denominato Space Ship One.

Se il sistema di alimentazione degli endoreattori presenta notevoli problematiche progettuali, il sistema di raffreddamento non è da meno, infatti le elevatissime temperature che si sviluppano in essi richiedono sofisticati sistemi di asportazione del calore che possono venire realizzati o mediante l’impiego del combustibile stesso, libero di scorrere in opportuni condotti che rivestono la camera di combustione e l’ugello, oppure dei sistemi che anziché utilizzare dei veri e propri condotti sfruttano un film liquido (in genere sempre di combustibile).

Una soluzione alternativa molto interessante consiste invece nell’impiego di rivestimenti ablativi, ovvero di un rivestimento in materiale tale da vaporizzare quando sottoposto a stress termici particolarmente elevati, sottraendo così una notevole quantità di calore dal sistema, ma non permettendo un riutilizzo dello stesso materiale in quanto la sua azione implica una degradazione e distruzione dello stesso materiale.

Anche per oggi è tutto, vi rinnovo come sempre l’invito  continuare a seguirci (nonostante le difficoltà) sempre su AppuntiDigitali, sempre con la rubrica Energia e Futuro.

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