Da iPhone ad Android: il dado è tratto

Ormai da più di un mese uso un Nexus 4 come mio unico telefono. Ho molte cose da dire quindi prendetevi una mezz’oretta, sedetevi comodi e dopo la lettura non lesinate pareri.

Mi sono accostato al Nexus 4 leggendone tanto recensioni in campo neutrale quanto su siti dedicati al mondo Android. Ho anche studiato pareri di utenti iOS che hanno testato il terminale. L’ultima categoria è quella che, per la mia modestissima esperienza, ha capito meno cosa è un Nexus e perché lo si sceglie.

Gli utenti iOS di cui ho letto il parere, leggono l’intera questione Android – iOS (parliamo dell’Android duro e puro, non delle versioni “adulterate” di Samsung, HTC etc.) come un progressivo avvicinamento del primo al secondo. Giornalisti autorevoli, come MG Siegler di Techcrunch, parlano del Nexus 4 (An iPhone Lover’s Take On The Nexus 4) come di una testimonianza vivente del fatto che Android prima o poi ce la farà a replicare la user experience di iOS.

Sarà che non ho mai avuto alcun rapporto emotivo/sentimentale con il mio iPhone, sarà che ritengo il concetto di user experience importante ma secondario rispetto al raggiungimento di specifici obiettivi funzionali. Sarà infine che m’interessano più le differenze che le analogie – ed è questa la molla che mi ha spinto fuori dal recinto iOS – ma mi trovo su posizioni diametralmente opposte.

Estratto dalla scatola e acceso per la prima volta, il Nexus 4 non fa nulla per darti l’idea di essere un terminale user friendly, colorato e ammiccante. Al contrario il launcher stock di Android 4.2.2 è piuttosto spartano. Colpisce subito la dimensione dello schermo e subito dopo la difficoltà ad usare il telefono con una mano sola – particolarmente quando equipaggiato del bumper LG. Malgrado la mia mano sia piuttosto grande, l’angolo opposto inferiore è scomodo da raggiungere e quello superiore lo sarebbe – a malapena – solo se il pollice fosse lungo quanto il dito medio. Lo sblocco con codice dello schermo richiede un’attenzione focalizzata sul telefono, anche perché alla fine bisogna premere il tasto enter.

Malgrado le specifiche hardware di assoluto rilievo, scorrendo una pagina di media complessità o le schermate del launcher sono frequenti dei microlag. Di più: le applicazioni per me fondamentali, che ho installato appena preso il telefono, rispetto agli equivalenti iPhone, sembrano scritte con la mano sinistra.

Le notifiche che un utente iPhone si aspetta appaiano in corrispondenza delle applicazioni che le hanno generate (un numerino sull’icona di Whatsapp, Skype etc) non sono disponibili se non – almeno, questa è la soluzione che ho adottato – come add-on di un launcher di terze parti, nel mio caso TeslaUnread per Nova Launcher. Ma anche così i risultati non sono omogenei, alcune applicazioni tipo Whatsapp restano senza notifica e dio sa quale applicazione di terze parti risolve il problema. Il touchscreen poi sembra lievemente meno reattivo al tocco, quel tanto che basta per non essere tranquilli a usarlo senza guardarlo; la digitazione sulla tastiera virtuale mi ha inizialmente spiazzato causa posizionamento dei tasti e diverso funzionamento dell’autocorrezione.

Insomma, alla fine della prima giornata ero già quasi certo di aver buttato via i miei soldi. Nel successivo mese, aiutato anche dalle discussioni con utenti di Appunti Digitali, ho capito che, per dirla in due parole, avevo impostato male il problema. Il Nexus non è un telefono che ammicca all’utente iPhone. Se valutato coi criteri di un abitudinario dell’iPhone basta una giornata per stroncarlo.

Per molti versi è agli antipodi di iPhone, innanzitutto perché non è un prodotto “a vocazione maggioritaria”. Laddove iPhone cerca di prevedere le esigenze degli utenti e incanalarli su percorsi d’uso predeterminati e spesso non aggirabili (uno per tutti l’assenza della gestione di file e cartelle), l’essenzialità del Nexus mal si adatta ad un uso “passivo”. Al contrario richiede, direi impone, personalizzazione.

Se Android è la materia prima su cui OEM ed operatori costruiscono il loro valore aggiunto, il Nexus carica l’utente finale di questa responsabilità, con abbondante l’uso di “magia bianca” (app, impostazioni) e “magia nera” (rooting, flash di rom custom e Kernel personalizzati).

Ho trascorso una buona parte delle prime due settimane a familiarizzarmi con la schermata impostazioni (ad un utente appena smaliziato su iPhone basta mezz’ora) e a combatterci per piegare il terminale al mio volere. Nel frattempo ho scoperto le meraviglie dei launcher alternativi – la mia scelta è ricaduta su Nova Prime – indispensabili per fare cose banali tipo una gestione sensata degli home screen.

Ho imprecato a lungo per trovare un client mail decente per gestire le mie caselle non Gmail – quello integrato fa pena – scegliendo dietro consiglio dei lettori Aquamail. La bassa qualità del client di posta “generico” integrato, se non giustificabile, è comprensibile pensando che Gmail (e i dati che “pesca” dai suoi utenti) è parte del core business di Google, che quindi non ha alcun interesse a favorire l’uso di servizi alternativi. Il che mi porta al generale problema di abbracciare una piattaforma mobile di un’azienda che campa di pubblicità e profilazione dell’utenza, tema che affronterò più avanti.

Tornando alle applicazioni, mi sono scornato con il file manager di Google per Mac, che ho prontamente disinstallato a favore di Titanium Backup in abbinamento con Dropbox (una soluzione che comunque non offre lo stesso livello di “confidenza” che dà il backup automatico via iCloud/iTunes di iPhone).

In generale il software (4.2.2), non esente da qualche baco, dà spesso l’impressione di essere inutilmente complicato, e l’interfaccia utente, anche dopo la personalizzazione, è ben distante dal livello di rifinitura a cui sono abituati gli utenti iOS.

Tutto ciò premesso (fattaci l’abitudine, fatto il root e personalizzatolo a dovere) il Nexus 4 è un signor telefono, per quel che gira sotto il “cofano” e per la profonda personalizzazione che mette a portata di mano (i citati problemi di lag e una durata insoddisfacente della batteria sono stati risolti con un Kernel custom, che ha restituito piena dignità all’hardware).

La continuità col parco applicazioni di Apple è garantita e, anche se molte app funzionano meglio su iPhone, ce ne sono alcune esclusive Android che offrono funzioni impossibili da replicare in ambito iOS (le prime due che mi vengono in mente: Tasker e Analizzatore WiFi).

Per quanto riguarda la gestione dei documenti, la “filosofia” Android mi è molto più congeniale di quella iOS: file e cartelle sono facilmente accessibili, che se da un lato pone alcuni rischi all’utenza poco smaliziata, offre a tutti gli altri enormi vantaggi rispetto allo sbilenco sistema basato sulle app che Apple adotta.

Anche la musica, gestibile per nome file anziché tag, sarebbe più immediata da organizzare, se non avessi già negli anni provveduto a svolgere un estensivo (ed estenuante) lavoro di tagging.

Un gigantesco plus di Android su iPhone è il fatto che le applicazioni “si parlano”. Ad esempio pensiamo alla condivisione di foto: su iOS, nell’applicazione dedicata alla gestione delle foto, posso condividerle con un menù di servizi limitato a quelli previsti da Apple. Su Android se installo un nuovo servizio, questo diventa disponibile fra le opzioni di condivisione. C’è di più: azioni anche fondamentali come fare una chiamata o scrivere un messaggio di testo, possono essere completate una sola volta o di default con app di terze parti. Così toccando il pulsante “invia messaggio” nella rubrica, posso automaticamente invocare Whatsapp, Skype etc.

Per un utente Android queste sono noccioline ma capite bene che bastano a sbalordire un utente iPhone, specie in vista del fatto che Apple fa leva su questa chiusura per promuovere le proprie applicazioni a danni della concorrenza (si pensi alla “concorrenza sleale” perpetrata con l’integrazione nell’OS di “read later”, rispetto all’allora leader Instapaper).

Sempre per utenti smaliziati, la gestione a basso livello dell’OS (tramite app integrate e di terze parti) è una manna dal cielo, soprattutto perché l’altra faccia della medaglia dell’apertura di Android ad app di terze parti che girano in background e interagiscono da vicino con l’hardware, è una non perfetta vigilanza su applicazioni mal programmate che divorano la batteria e la CPU.

È una manna dal cielo ma che va poi usata con giudizio: ricordo bene i tempi di Windows ’95 e ’98 e la smania del tweak, che spesso portava dal lato funzionale a un aggravamento dell’instabilità e da quello “filosofico” ad un uso più che altro autoreferenziale della macchina. I forum sono inondati di topic “amatoriali” su argomenti da addetti ai lavori tipo wakelocks così come lo store è pieno di spesso inutili e controproducenti task killer.

Veniamo dunque ad un punto ambivalente: l’essere (direi per eccellenza) il Nexus una succursale di Google nella mia tasca. Il che porta indubbi vantaggi: il cloud è “casa Google”, i servizi cloud di big G, a partire dalle mappe, lasciano spesso iOS nella polvere. Il terminale è perfettamente integrato coi servizi cloud di Google e col tempo – particolarmente se Apple non prenderà velocemente atto dell’enorme gap accumulato sul fronte cloud – le cose andranno solo migliorando. Google Now, integrato nelle ultime release di Android, offre funzionalità piuttosto stupefacenti, un vero e proprio lavoro di intelligence sulle tracce lasciate nell’attività web e sui propri dati personali.

Arriviamo così a quella che gli anglosassoni chiamano “flip side”: Google è il leader mondiale della pubblicità su Internet, le sue casse si alimentano dei dati personali di chi usa i suoi servizi. In quest’ottica un Nexus (come qualunque altro telefono Android) è lo strumento più formidabile di cui Google disponga per profilare l’utenza per aumentarne il valore pubblicitario. La differenza rispetto ad iOS e Windows Phone, i due maggiori competitor di Android, è rilevante: nessuno dei due prodotti arriva da un’azienda che abbia nella pubblicità altro che una voce marginale del proprio bilancio.

Volendo pensar male (e a pensar male spesso ci si azzecca), mi sento dunque più tranquillo (teniamo PRISM fuori dalla discussione per un attimo) affidandomi a Microsoft o Apple, che peraltro beneficiano di economie più dirette (vendita licenze o dispositivi) dai loro prodotti mobile. Google al contrario “regala” il proprio OS – vincolando l’adozione del brand Android all’integrazione dei propri servizi “succhia-dati”. È un caveat da non sottovalutare nella scelta di un terminale.

Sempre a proposito di servizi cloud, meritano una menzione le funzioni di ricerca vocale di Google – specie quando paragonate a Siri di Apple. Come già anticipato qualche giorno fa, trovo entrambe inadeguate, per motivi diversi e complementari. La chiamata vocale, funzione per me cruciale come spiegherò più avanti, è servita più puntualmente da Siri, che ha il vantaggio di essere invocato dalla pressione di un pulsante fisico funzionante anche a schermo bloccato.

Il riconoscimento vocale è migliore in Android ma delle ricerche web vocali francamente posso tranquillamente fare a meno. Semmai è utile la ricerca vocale su Google Maps ma in generale è ancora lunga la strada da compiere (almeno, per la lingua italiana) per arrivare ad una gestione vocale davvero intelligente, che sia in grado di pilotare le applicazioni e in questo rispondere puntualmente e in modo contestuale alle domande poste, nel momento in cui gli occhi e le mani sono occupati in altre attività.

Merita qualche considerazione l’implementazione Bluetooth che, ahimè, finisce per rappresentare una questione dirimente. L’intero stack dà l’idea di essere bacato e in particolare l’A2DP (sì, sono riuscito a farlo funzionare dopo qualche reset) funziona bene per quanto riguarda la qualità audio grazie all’opzione “streaming in alta qualità”, in modo disastroso per tutto il resto. Non sono in grado di dire quanto a ciò contribuisca il player musicale di Google, ma di certo l’esperienza che ho riportato usando il Nexus 4 come player musicale in auto è in una parola deludente.

Altro punto a sfavore, anch’esso dirimente, è l’accessibilità della chiamata vocale. Come accennavo nei commenti qualche giorno fa, iPhone, su auto non in grado di attivare la chiamata vocale del terminale via comandi integrati, permette di bypassare i comandi dell’auto invocando la chiamata vocale con la pressione prolungata del tasto home. A quel punto il telefono, previamente collegato al sistema audio via Bluetooth, abbassa la musica e permette di inserire il comando vocale (“chiama Tizio – Ufficio”) attraverso il microfono dell’auto.

Sul Nexus 4, come sull’iPhone, di integrazione coi comandi al volante manco se ne parla ma non c’è modo di attivare la chiamata altrimenti che sbloccando il telefono, selezionando la funzione vocale e sperando – è del tutto casuale – che il risultato non sia la ricerca web avente come oggetto la persona nominata. Quindi da un lato premere un pulsante avendo gli occhi fissi sulla strada e fare il resto parlando. Dall’altro prendere il telefono e smanettarci per una decina di secondi, il tempo che basta per un rovinoso tamponamento o peggio l’investimento di un pedone.

È seccante dover abbandonare un telefono che dopotutto ho molto apprezzato per un particolare se vogliamo così futile, ma è ancor più frustrante pensare che un produttore come Google non si sia posto il problema nei termini in cui me lo pongo io. Sarà che ho l’auto sbagliata (eppure la Prius è di moda in Silicon Valley…), sarà l’assenza di un pulsante fisico cui associare funzioni diverse dal volume o l’accensione. Ma con 30000 e più km all’anno è un rischio che non posso correre.

Se oggi la decisione mi riporta – non senza qualche riluttanza, come avrete capito a questo punto – fra le braccia di Apple, la mia storia con Android non finisce qui. Terrò gli occhi ben aperti a caccia di un Nexus, o un terminale “Google Edition” che mi garantisca un facile rooting e un percorso d’aggiornamento chiaro e lineare (stile iOS). Assieme a quelle in fondo poche funzioni per me irrinunciabili che oggi il Nexus non soddisfa. E magari uno schermo che non richieda la mano di André the Giant per essere sfruttato.

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