Col Do Not Track saremo tutti più liberi?

Solo qualche giorno fa, 30 big spender del mondo advertising hanno pubblicamente biasimato la decisione di Microsoft di attivare di default la funzione Do Not Track in IE10.

La funzione DNT segnala al sito visitato l’intenzione del visitatore di non condividere i propri dati con soggetti terzi quali servizi di analytics, network adv, piattaforme social: un sistema unificato (ma opzionale per chi dovrebbe recepirne le conseguenze) per eseguire l’opt-out dalla pletora di servizi che raccolgono e aggregano dati sugli utenti Internet per analizzare i trend ed eventualmente servire advertising contestuale.

Lavorando nel mondo della pubblicità ed interessandomi da tempo delle tematiche della privacy e della remunerazione dei contenuti che danno vita al Web, credo di riuscire a cogliere i punti più controversi della questione.

Andiamo subito alla radice del problema: l’idea di essere “tracciati” da un network di advertising, messa giù così, è sgradevole. Il fatto che questo sia utile ad essere serviti con advertising contestuale ai propri interessi passa in secondo piano davanti a modalità di tracciamento percepite dal pubblico come “subdole”.

Benché di fronte a fatti del genere serpeggi la tentazione di separare manicheamente i buoni dai cattivi, benché la mossa di attivare DNT di default suoni da parte di MS molto come un tentativo di conquistarsi un posto in prima fila nel banco dei buoni, la questione ha radici lontane e non si presta a soluzioni tranchant.

Basta fare un paio di passi indietro rispetto alle schermaglie dell’ultim’ora per scoprire che la causa prima di questa impasse risiede nel fatto che, fin dall’alba di Internet, nessuno vuol pagare per altro che il canone di connessione. Nel mentre, fin dalla fine degli anni ’90, uomini in doppiopetto nei salotti buoni della finanza di tutto il mondo, progettavano una web economy fondata sulla pubblicità, in cui il pubblico e la sua privacy, rappresentava il prodotto da vendere e agli inserzionisti, non certo l’acquirente. Da allora l’unico cambiamento risiede nell’affinamento delle tecniche utilizzate per spremere soldi dagli utenti di Internet. Utenti che continuano a pretendere tutto e gratis, ma nel frattempo si sono sensibilizzati su temi come la privacy, agganciando le loro aspettative a labili soluzioni tecnologiche (DNT) e garanzie legislative tutte da dimostrare.

A fronte di queste considerazioni, davanti a un’utenza disabituata a pagare per contenuti e servizi che pure distribuiscono valore (altrimenti non avrebbero miliardi di utenti), come sorprendersi della nascita di economie contorte e subdole a sostegno di tutto il carrozzone? Come può oggi la multinazionale Microsoft come l’ultimo utente di Internet, non domandarsi: “ma il lavoro di tutti quelli che scrivono, comprano e amministrano server, chi lo paga?” Come si può cadere dal pero a fronte di una rete che, per soddisfare la generalizzata refrattarietà dell’utenza al pagamento dei contenuti, guadagna tracciando abitudini e stili di consumo degli utenti? Come si può ignorare che, mano a mano che si chiudono i rubinetti all’advertising e in assenza di altri modelli di remunerazione, la pubblicità diventerà il solo ed unico “contenuto”?

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