La tutela dei beni “immateriali”

Questo pezzo di Cesare rappresenta il primo capitolo di un botta e risposta con Alessio, la cui prossima puntata apparirà su AD nei prossimi giorni. Stay tuned! :-)

Il precedente articolo sul TCPA ha scatenato polemiche, more solito, perché l’argomento è particolarmente sentito e da un po’ di anni a questa parte si assiste a una dura contrapposizione fra chi lo sostiene e chi lo avversa.

In realtà, da quel che è emerso poi da commenti, per lo più le contestazioni non riguardano il TCPA di per sé, quanto gli (utili) strumenti che fornirebbe alle major per il controllo dei contenuti da loro prodotti. Tutto ciò ricade, però, in un’altra definizione: quella di Digital Rights Management; i tanto odiati DRM.

Ne abbiamo già parlato qui diverse volte in relazione agli ultimi ritrovati, ritenuti troppo invasivi e fastidiosi per gli utenti finali (e, soprattutto, onesti: quelli che hanno pagato per poter usufruire del prodotto!), ma rimane aperta la questione di come conciliare quelle che sono due libertà fondamentali: quella dei produttori di produrre e gestire come vogliono quelli che sono i loro prodotti (e di ottenere, eventualmente, una contropartita economica), e quella dei consumatori di disporne secondo il loro gradimento.

E’ evidente che, portate agli estremi, le due libertà sono, di fatto, inconciliabili. Le due parti coinvolte, dal loro punto di vista, pretenderanno sempre di avere ragione. In un mercato “libero”, però, il modello della domanda e dell’offerta dovrebbe servire a bilanciarne le esigenze, arrivando a un compromesso utile per le due entità, che di fatto hanno bisogno l’una dell’altra.

Detto in altri termini, ai consumatori servono i prodotti delle major, e a queste ultime i portafogli dei primi per poter sopravvivere e continuare ad alimentare il ciclo di produzione e consumo che caratterizza ormai da tempo la nostra società (questo non significa che sia il modello “migliore” o “giusto”, ma al momento è quello che ci ha condotti al progresso e alle comodità di cui godiamo).

Tutto ciò dovrebbe portare, quindi, a un naturale equilibrio, dove da ambo i lati si rinuncia a parte della libertà e delle aspettative per avvicinarsi alla posizione dell’altro e arrivare, infine, a concludere l’affare, accontentando per lo più tutti. Alcune considerazioni vanno, però, fatte.

Il produttore dovrebbe avere tutto il diritto di vedersi riconosciuto un corrispettivo a fronte della fruizione del suo prodotto da parte del consumatore. Ovviamente è anche libero di regalarlo o di utilizzare altre forme (giftware o postcardware, ad esempio), ma questa scelta dovrebbe ricadere nel suo dominio di competenza.

D’altra parte dovrebbe essere ovvio che, se un produttore ha investito risorse, vuole intanto ripianare le spese, e cercare poi di guadagnare, contribuendo così ad alimentare il già descritto ciclo di produzione e consumo. Il consumatore, d’altro canto, tende a ridurre al minimo le sue, di spese, e al limite estremo vederle ridotte a zero.

L’ideale è rappresentato da una contrattazione fra le parti per arrivare a un punto sufficientemente conveniente fra i due. Nella realtà sorgono due problemi. Il primo è che le major tendono a dominare, imponendo i loro prezzi. I consumatori, per contro, subiscono e si vedono costretti a sborsare la cifra richiesta per accaparrarsi il loro oggetto del desiderio. Non c’è contrattazione perché il consumatore non è consapevole della propria forza contrattuale, derivante dal possesso del bene che interessa al produttore: i suoi soldi.

Non funziona sempre così, ma per i beni “immateriali” (software, musica, film, ecc.) è uno scenario abbastanza comune. Col tempo i prezzi scendono e si potrebbe, quindi, aspettare il momento opportuno, ma in una società voracemente consumistica come la nostra vogliamo “tutto e subito”; non siamo disposti ad aspettare e l’ultima novità dev’essere un “must have!“.

Ci saranno, quindi, quelli che sono disposti a spendere per ottenere immediatamente ciò che vogliono, chi si accontenterà di aspettare il momento buono (ripiegando, magari, sull’usato), e chi invece rinuncerà all’acquisto. Infine, e arriviamo al secondo problema, ci sono quelli che ricorreranno alla “quarta via”: quella della copia.

Le motivazioni che ho letto sono le più disparate: da quella “umanista” della diffusione della cultura (che dovrebbe essere, però, appannaggio dello stato), a quella fanta-economista del bene “duplicabile all’infinito” (e pertanto “copiabile all’infinito”; peccato che non funzioni coi soldi: quelli che, ad esempio, vengono spesi per realizzare e commercializzare i prodotti), fino ad arrivare a quella “caotica” (definirla “anarchica” sarebbe un’offesa ai padri del pensiero anarchico) del “faccio quello che mi pare con quello che mi passa fra le mani (o trovo nella rete)” o, addirittura, della “tossicodipendenza”, dove questo tipo di prodotti sono equiparati a beni di prima necessità di cui ormai non si può fare assolutamente a meno (roba da SERT, insomma).

Per questa gente il fatto che quel prodotto sia il frutto del lavoro di un’azienda, che paga gli stipendi ai suoi dipendenti (che usualmente hanno una famiglia a carico), o non li tocca per niente, oppure viene ridimensionato o messo in secondo piano rispetto alle proprie, prioritarie, esigenze.

Se il prezzo viene ritenuto troppo elevato l’idea di una campagna di sensibilizzazione dei consumatori sull’argomento, volta a una presa di coscienza del proprio potenziale e alla promozione di una campagna di boicottaggio delle major al fine di ricondurle a più miti consigli, non viene nemmeno presa in considerazione. Copiare è indiscutibilmente più comodo e richiede di gran lunga meno impegno ed energie.

A fronte di questa situazione le major hanno, da tempo, praticato la via dei DRM. Non mi addentrerò sulle problematiche a essi legati perché, come già detto prima, ne abbiamo ampiamente discusso. E’ innegabile, però, che la ricerca di mezzi di questo tipo, ma anche di pressioni suoi governi per legiferare riguardo ad agevolazioni in materia, sono diretta conseguenza del fenomeno della pirateria (sia a fini di lucro che non).

Questo perché alle aziende interessa ottenere la garanzia che, a fronte della fruizione di un loro prodotto, ci sia un riscontro economico, che non dev’essere necessariamente da essa imposto, ma frutto di un lavoro di concertazione coi consumatori. Diversamente non vedo quale altro motivo potrebbe spingerle a seguire queste strade. Sarà, probabilmente, un mio limite, e pertanto approfitto dello spazio che mi concede Appunti Digitali per conoscere l’opinione dei lettori sull’argomento.

Aggiungo soltanto un’altra considerazione che rientra nella sfera della tutela di questi beni “immateriali”, che riguarda in particolare il software, i brevetti sulle idee (che sono sfrutto dell’ingegno umano) e la protezione del proprio codice da occhi indiscreti.

Come programmatore sento forte l’esigenza di un mezzo che tuteli il lavoro intellettuale (e anche economico) necessario alla realizzazione dei miei progetti. Detto in altri termini, se ho una buona idea, voglio poterla sfruttare.

Attualmente ciò è possibile in alcuni paesi che consentono, appunto, il rilascio di brevetti, ma si tratta di soluzioni non globali e, soprattutto, estremamente costose. Di fatto chi vuol brevettare e non ha abbastanza non può usufruire di questa forma di tutela. Inoltre i brevetti, originariamente nati per tutelare gli inventori, ma promuovere la cultura, sono letteralmente esplosi (come quantità) e vengono utilizzati come “grimaldelli” per multinazionali specializzate nel trascinare in tribunale aziende o singoli accusati di aver utilizzato i loro brevetti senza averne acquisito la licenza.

Se ne potrebbe fare tranquillamente a meno se fosse a disposizione qualche mezzo che permettesse di nascondere il codice, in modo tale da proteggere l’implementazione delle idee dallo sguardo di chi potrebbe fare man bassa copiandole con poco sforzo. Parlo, quindi, di sistemi che impediscano il reverse engineering.

Strada che attualmente non è praticabile (mancano, appunto, i mezzi), e che comunque viene mal vista dai “caotici” di cui sopra, che vedono in queste forme di protezione una violazione alla propria libertà di poter fare quello che vogliono. Fermo restando che se la liceità o meno del reverse engineering spetta all’ordinamento dello stato, ci sono alcuni aspetti da considerare.

Come un’azienda è stata in grado di realizzare una particolare applicazione, lo stesso può fare chiunque sia in grado di programmare e abbia adeguate conoscenze. Il mercato del software è decisamente inflazionato e di certo non mancano braccia e menti in grado di affrontare e risolvere gli stessi problemi.

Altra cosa, e chiudo, è che quel prodotto è frutto del lavoro dell’azienda. Che dovrebbe avere tutto il diritto di deciderne le modalità di fruizione (e quindi anche la chiusura del codice). E il consumatore è altrettanto libero di rivolgersi altrove, oppure di rimboccarsi la maniche e realizzarlo da sé (o con l’aiuto di altri).

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